Martedì 25 luglio, alle ore 21:00 al Cinema Farnese verrà presentato “Lo Spazio Inquieto”, il film documentario dedicato all’opera e alla vita di Franco Angeli, diretto dal nipote – e omonimo – dell’artista, prodotto da Luce Cinecittà. Andrea Pomella introdurrà il film e ci accompagnerà nell’incontro con il pubblico, insieme a Livia Bonifazi, Franco Angeli e Maria Angeli.
Il film si avvale di materiali inediti, film, foto e opere figurative e audiovisive per ricostruire la vita e il lavoro di uno dei più incisivi protagonisti di un periodo tra i più ricchi della storia italiana del Novecento: l’Arte, il cinema sperimentale, gli amici Mario Schifano e Tano Festa, la sua città Roma, il conflittuale rapporto con il PCI. Il nipote Franco Angeli, traccia un racconto personale e familiare affidandolo a chi lo ha conosciuto bene: il fratello Otello, la figlia Maria, la moglie Livia, l’amico Marco Bellocchio e critici e storici dell’arte. Testimonianze preziose di amici e familiari, che regalano una visuale intima, non didascalica, rivelatoria, di un ricercatore visionario anche fuori dalla tela, un artista che ha fatto un uso iconico, folgorante, di simboli e luoghi dell’immaginario collettivo e resta un rivoluzionario attualissimo dello sguardo.
Il regista Franco Angeli, ci racconta: “Porto il suo nome e questo la dice lunga sull’amore che provava mio padre per Franco. Porto il suo nome con un certo orgoglio e mi accorgo di scandirlo bene quando mi presento a qualcuno che lo conosceva, o avrebbe potuto conoscerlo, cercando nello sguardo una sorpresa che confermi, oltre all’omonimia, anche la somiglianza fisica. Ricordo le case dove ha vissuto e le grandi stanze che usava per lavorare: via dei Prefetti, Piazza Farnese, via dei Barbieri, l’Appia Antica, via Flaminia. L’immagine più nitida che conservo di lui è accovacciato a terra che srotola metri di scotch con il quale fissare il cellophane al pavimento prima di iniziare a dipingere. O le mani, così sicure e precise nel tenere la matita. O il giradischi, che suona Neil Young. Ma non posso dire di averlo conosciuto bene. Anche se non aveva molti più anni di me, ci dividevano un’intera epoca, un’intera cultura, un’intera vita.
“Lo Spazio Inquieto – aggiunge Franco – nasce dall’esigenza, dalla voglia egoista e del tutto personale, di avvicinarmi a mio zio Franco per conoscere e capire ciò che non avevo capito 40 anni fa. L’infanzia, per esempio, di cui non parlava mai, ma che prende forma nei tanti appunti, a dimostrazione di quanto sia stata determinante nelle sue scelte future. La figura della madre o il rapporto con i fratelli, con Festa, con Schifano. Due linee di narrazione che procedono parallelamente. Da un lato lo sguardo critico sulle sue opere, esposto con lucidità e semplicità da Laura Cherubini, Luca Massimo Barbero e Bruno di Marino, dall’altro il racconto personale e particolare della sua vita, del suo lavoro quotidiano, dei suoi affetti, affidato alle voci della famiglia: a partire da Otello, il fratello ritrovato, alla moglie Livia Lancellotti, alla figlia Maria; o quelle degli amici come Mario Carbone, Marco Bellocchio, Giosetta Fioroni. E le poesie, gli appunti, i testi che ci ha lasciato. A volte battuti a macchina, altre volte scritti a mano, in un inconfondibile stampatello, conservati presso l’Archivio Franco Angeli, tracce intime di pensieri privati”.
“La voce di Franco, che aveva sempre un tono ironico e dissacratorio, e che ho voluto consegnare a quella femminile di Livia Bonifazi perché non si confondesse il falso col vero. Ma le due linee di racconto, in realtà, non possono essere disgiunte, perché Franco era il suo lavoro: Franco non faceva il pittore, era un pittore, era un artista. E come dice sua moglie Livia, lavorava incessantemente, “come fosse in miniera”. C’è un quadro, il suo numero uno, forse la sua prima opera consapevole, realizzata a poco più di vent’anni, che ha un titolo molto significativo: “E dalla ferita scaturì la bellezza”. Più che un nome da dare all’opera è un desiderio programmatico. È la sua ragione di essere al mondo: trasformare l’esperienza della guerra e della sua infanzia difficile, in Arte. Perché sue erano le ferite. Anzi, lui era la ferita dalla quale far scaturire la bellezza, era lui che si mostrava attraverso la benda, che emergeva dirompente, imprimendo la sua sindone sulla garza, sulla tela, appunto. Lontano dalle immagini colorate e riconoscibili della Pop Art, dalla letteratura che vuole i pittori romani degli anni ’60 simili a delle rock star, contornati da donne bellissime, dal lusso e dall’eccesso, il mio documentario ha, per sua naturale genesi, uno sguardo familiare e intimo. 150 opere – ma avrei voluto metterne dieci volte di più – 50 fotografie – molte delle quali elaborate da Franco – inquadrature tratte dai suoi film girati in 16mm con la sua Beaulieu con carica a molla o con l’Arriflex, le testimonianze, la musica di Maria Angeli, il carattere familiare del racconto, tutto questo per iniziare solo a tracciare l’immagine e il profilo di Franco Angeli, mio zio, uno dei maggiori artisti della seconda metà del novecento”, conclude il regista.