AGI – È morto Giorgio Napolitano. Presidente emerito della Repubblica, si è spento oggi pomeriggio a Roma presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo. Nato a Napoli il 29 giugno 1925, è stato Capo dello Stato dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015 e il primo della storia italiana a essere stato eletto per un secondo mandato, non chéil primo a essere stato membro del Partito Comunista Italiano e il terzo napoletano dopo De Nicola e Leone.
Il ‘re Giorgio’ che piaceva a Washington
Sembra che il grande cruccio della sua vita sia stato quello di non aver mai potuto darsi a tempo pieno al teatro, amore abbandonato dopo gli anni dell’Università. Ma quelli erano anche gli anni delle scelte – tempi di guerra e di fascismo – e Giorgio Napolitano prese un’altra strada. Non che gli sia andata male. Sarebbe infatti diventato undicesimo Presidente della Repubblica e poi – cosa senza alcun precedente, ma solo fino ad allora – persino dodicesimo, tra due ali di folla parlamentare plaudente cui lui nemmeno in quel momento risparmiò un paio di solenni ‘schiaffoni’.
Era il maggio 2013, e lui aveva già sulle spalle la bellezza di 88 primavere. Nemmeno a Sandro Pertini era riuscito di farsi rieleggere a quell’età e sì che ci puntava, forte com’era dell’essere il più amato dagli italiani. Ora, dice un maestro di politica come Guicciardini che bisogna “diffidare di coloro che dicono di essere stanchi dei pubblici impegni, perché sono sempre pronti a tornarvi con la velocità con cui il foco va alle cose secche e ben unte”, e Napolitano aveva fatto sapere per tempo di schifare l’idea di essere confermato.
Sia come sia, egli fu l’ultima spiaggia cui s’attaccò un sistema che reggeva l’anima coi denti. Un sistema che andava emendato, sicuramente migliorato. E lui che era un ‘migliorista’ di nome e per scelta, emendarlo voleva a costo di fare un patto col diavolo. Sarebbe bastato anche un piccolo Malacoda.
Fin da giovane, dell’ala migliorista, appunto, del Partito Comunista aveva fatto parte: il progresso della sinistra si fa sposando Rousseau con Diderot, Enciclopedia e menti illuminate. Riforme, come Filangieri e Genovesi: la Napoli settecentesca, culminata nella Repubblica Giacobina.
Insensibili alla ‘sgargamella’, da grandi incassatori, maggioranza e opposizioni continuarono ad applaudire: avevano capito che era iniziata l’era di ‘Re Giorgio’, ma anche che sarebbe durata poco. È l’eterna storia della Palude e della Fronda Parlamentare: non c’è re che non la tema, e ne ha ben donde.
Re Giorgio’ era detto così ben da prima del 2013: vuoi per il suo fare distinto, vuoi per una vaga somiglianza, vuoi, infine, perché era uno dei pochi politici italiani in grado di prendere il tè con la Regina senza far scivolare la tazzina tra le dita. Anzi, facendo un figurone grazie ad un inglese più che forbito. Insomma, un gentiluomo di movenze britanniche e di eleganza partenopea: quella che non colpisce ma resta impressa. Per l’appunto Filangieri e Genovesi, Cuoco e Caracciolo.
Il comunista preferito di Kissinger
Riformista, illuminista. Ma con un tocco di anglofilia che, più che a Nelson e ai suoi cannoneggiamenti antirivoluzionari e antipartenopei, lo fa piuttosto accostare a Lord Acton. Non è un caso se lui, primo ex comunista a divenire ministro dell’Interno e poi Presidente, potesse vantare amici ed ammiratori persino a Washington. Nemmeno Henry Kissinger era immune dal suo delicato fascino, e lo chiamava “il mio comunista preferito”. Per dire: quando nel luglio 2009 sbarca al Quirinale Barack Obama, e a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi è lì tutto pronto a spalancargli le braccia, è semmai Napolitano a ricevere il complimento più ambito. “Lei ha una reputazione meravigliosa, non solo per la sua carriera politica ma anche per la sua integrità e gentilezza.
È un leader mondiale che rappresenta al meglio il suo Paese” si sente dire dall’Illustre Ospite. L’altro, a Palazzo Chigi, abbozza ma non è per niente di buon umore. L’amore viene ricambiato: Napolitano e Obama si vedranno, ora da una parte ora dall’altra dell’Oceano, altre quattro volte. E a New York il Presidente italiano sarà sempre accolto volentieri dal Council on Foreign Relations, e non c’è bisogno di dir altro.
Nessuno lo avrebbe mai immaginato, fino almeno alla fine degli anni ’70, quando cioè gli Usa ancora negavano il visto a un Enrico Berlinguer. Ma fu lui, Napolitano, il primo esponente di spicco del Pci a vedersi stampare sul passaporto il timbro rosso e blu con la scritta “visa”.
Perdonata era stata, finalmente, quell’intemperanza giovanile che lo aveva portato nel 1956 a scrivere sull’Unità un articolo giustificatorio della repressione della Rivolta d’Ungheria. Qualcuno se ne ricordò, di quell’articolo, all’epoca della prima elezione al Quirinale e andò a dar fastidio a Francesco Cossiga: presidente emerito, acceso anticomunista ed amico di Nagy, Maleter ed Edgardo Sogno. Si aspettava, il giovane ed illuso provocatore, di poter ascoltare un bell’attacco a viso aperto, ma ci rimase male: Cossiga aveva già capito tutto e quindi elogiò a gran voce il successore. Vecchia volpe, vecchio conoscitore di rotte atlantiche.
Nel suo primo mandato, Napolitano aveva legato il suo nome a due circostanze: la lotta alle morti sul lavoro e i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. La prima fu autentica battaglia di civiltà, di cui in molti dovrebbero essergli grati. Però ancora adesso le morti bianche sono più di mille all’anno. Diverso il discorso sull’Unità d’Italia: bisogna dire che, andando a memoria d’uomo, è raro trovare un momento nella storia repubblicana in cui il Quirinale sia stato tanto popolare. Tra l’85 ed il 90 percento nei sondaggi. Ragazzi, che roba.
Il segreto di tanto successo sta forse nel fatto che, dopo tre lustri passati a dividersi, odiarsi ed insultarsi, sotto sotto gli italiani desideravano sentirsi dire che essere uniti è bello e giusto. A segnare la svolta fu una serata sanremese dedicata all’Inno di Mameli, condotta, interpretata e ‘tiranneggiata’ da Roberto Benigni. Ascolti da favola, 50 per cento di share e gli italiani che vanno a letto quella sera migliori, un pò, di quanto fossero la mattina. Capita di rado.
Napolitano, felice, ringrazia: il dvd di quella serata viene distribuito in tutte le scuole d’Italia. È presumibilmente questo il momento in cui si decide che a succedergli al Quirinale sarà sempre lui, ma chi lo sa. Ad ogni modo, una volta rieletto Napolitano come primo atto fa secco il suo grande elettore, cioè Bersani: gli offre non l’incarico per la formazione di un nuovo governo, come lui si invece si aspetta, ma un “preincarico”, formula non priva di ambiguità con pochissimi precedenti costituzionali.
Il sogno infranto delle riforme
Quando, come previsto, Bersani prende atto che non è cosa, sbarca a Roma Matteo Renzi, e qualcuno allora pensa alla manfrina. Ma é l’aria che tira, e Napolitano l’ha annusata fin da subito. Nuovi tempi, si spera anche per fare le riforme. Anzi, facciamole: vuoi mettere Filangieri. Il suo sostegno all’esecutivo dell’intraprendente nuovo protagonista della scena, succeduto a Palazzo Chigi a Enrico Letta, è talvolta molto accentuato, non privo di ‘tirate d’orecchie quando il caso lo consiglia. Il tandem, comunque, funziona, e la popolarità di entrambi schizza a livelli mai visti, almeno per un po’. Mica per molto, però: anzi, solo per pochino. Lo Spirito hegeliano antirivoluzionario non del Tempo, ma della neghittosa nazione riprende il sopravvento, la palude non si lascia trascinare via dal torrente, i montagnardi si scoprono con i piedi nel pantano.
E le riforme, sogno e chimera di ogni migliorista, languono. Oddio: passeranno, ma poi sarà il popolo, nel nome della più russoviana delle democrazie dirette esercitate per mezzo di referendum, a bocciar tutto. Malacoda finirà in un men che non si dica nelle fauci di Berlicche. Napolitano a questo punto si sente stanco, all’improvviso. Da anni ha problemi di camminata, la testa sta più che bene ma la schiena si inarca e la pelle si fa trasparente. Interviene lei, la moglie Clio, che parla poco ma si fa sentire.
Gli anni sono 90. Le immagini dei due che lasciano il Colle, questa volta definitivamente, ci mostrano la prima che quasi sostiene il secondo mentre si avviano alla macchina. Lui ha uno sguardo quasi perso, e non può non suscitare anche un tocco di malinconica e profonda simpatia. Quella che si avverte per chi, in fondo, non ci è riuscito. No, non è un Paese per miglioristi, e nemmeno per giacobini. Alla fine ci sarà sempre, a Roma, un cardinal Consalvi.