Ogni nuovo leader a Palazzo Chigi aleggia il miraggio e ogni volta ci si dice: “questa è la volta buona”. Sul progetto si accenna a una maggioranza blindata. Anche Italia Viva, per quel che poco che può contare nel conteggio dei voti, dichiara che sosterrà il progetto per rendere i governi più stabili. Il 3 novembre, al prossimo Consiglio dei Ministri, la riforma sarà presentata. Prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio, che a quel punto diventa premier in modo vero e proprio.
La ministra Elisabetta Casellati si occupa direttamente della redazione di quello che si annuncia un passaggio epocale che ha giustamente definito “la riforma delle riforme”. Non c’è riuscito Berlusconi, non c’è riuscito Renzi, ma lo stesso Craxi l’aveva ipotizzata nei suoi progetti. D’altra parte le maggioranze di centrosinistra hanno approvato la riforma di elezione del sindaco e del presidente della Regione dove si affermano principi cari al sistema maggioritario. Non si vede perché per il sistema parlamentare italiano non si debba riconoscere una premiership forte, con facoltà, da parte del presidente della repubblica, laddove si presentasse una sfiducia di nominare un nuovo presidente ma in seno alla stessa maggioranza eletta.
Sa snocciolata in cinque articoli. Il dolente per il gravame di lavoro nelle Camere consiste nel fatto che la riforma modifica tre articoli della Costituzione. Innanzitutto l’88. Afferma il potere del capo dello Stato di sciogliere le Camere: Si rivede anche l’articolo 92 sulla nomina del premier. In più c’è quanto accennato prima, l’articolo 94 relativo alla mozione di fiducia e sfiducia al governo.
Se andasse in porto per la prossima legislatura si voterebbe il Presidente del Consiglio, il rinnovo delle Camere in un’unica scheda.
Il nuovo sistema non può prescindere però da un criterio di elezione assolutamente maggioritario. Ci sarà un premio che assegnerebbe il 55% dei seggi nelle Camere ai candidati nelle liste collegate al candidato nuovo premier.
Si rivedono e correggono le prerogative del Capo dello Stato a cui, se passasse la riforma, non spetterebbe più il potere di nomina del premier: ovvio, perché sarebbe eletto direttamente dall’elettorato sovrano. Sempre il presidente però dovrà conferire l’incarico al premier eletto. Una prerogativa che però perde di sostanza e riduce l’immagine del presidente della repubblica a un notaio. E su questo verte la discussione parlamentare e costituzionale. Al presidente della repubblica però continuerebbe a spettare la prerogativa di nomina dei ministri su indicazione del capo del governo.
Come si diceva sopra, in caso di rovesciamento di fortuna del presidente del Consiglio, con la riforma, al presidente della Repubblica resta la prerogativa di assegnare l’incarico per il nuovo governo al premier dimissionario o a un altro parlamentare eletto e collegato al presidente del Consiglio. Si vuole così garantire la continuità della legislatura indipendentemente dalle fortune del premier eletto. Ma il presidente della repubblica resta chiaramente penalizzato davanti la cancellazione della prerogativa di nominare senatori a vita. I senatori eletti chiaramente continueranno il loro mandato.
La polemica si accenna incandescente. L’opposizione obietta che si tratta di un contentino al proprio elettorato dopo l’approvazione della finanziaria gravata da l’appesantimento delle tasse, ma che non se ne farà niente. È un modo, si sostiene ancora, di tenere insieme tutti i pezzi di una maggioranza che scricchiola. L’iter è lungo. La riforma deve passare con due voti nelle rispettive Camere. Ci saranno argomenti e ragioni per attestare tanti vaticini.