AGI – Difficile sintetizzare in poche righe una carriera come quella di Roberto Vittori. “Larger than life”, direbbero gli americani. Generale di brigata dell’Aeronautica militare, tre figli e due lauree, una in Scienze Politiche e una in Fisica, una vita tra gli Appennini, le stelle e gli Stati Uniti, dove oggi è responsabile dell’ufficio di Washington dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e ricopre il ruolo di Space Attaché presso l’Ambasciata italiana. Una terza vita da “diplomatico spaziale” e conferenziere (ma la speranza di una quarta volta nel cosmo è ancora viva) dopo quella da pilota e collaudatore militare – 2 mila ore di volo su oltre 40 mezzi diversi – e quella da astronauta, iniziata nell’estate del 1998, quando fu selezionato dall’Asi e trasferito al Johnson Space Center della Nasa, a Houston, dove avrebbe completato la preparazione come Specialista di Missione.
La prima missione nello spazio è dal 25 aprile al 5 maggio 2002, quando Vittori partecipa alla missione taxi-flight “Marco Polo” diventando il primo astronauta italiano a partire dalla base di lancio russa di Baikonur alla volta della Stazione Spaziale Internazionale, dove sarà consegnata la nuova Soyuz TM-34, la “scialuppa di salvataggio” per gli astronauti dell’equipaggio permanente della Stazione in casi di emergenza. Dal 15 al 25 Aprile 2005 è poi la volta della missione “Eneide”, ancora sulla Stazione Spaziale Internazionale in qualità di ingegnere di volo sia per l’andata che per il rientro a terra.
Dal 16 maggio al primo maggio 2011 Vittori partecipa infine all’ultima missione dello Space Shuttle Endeavour, il cui principale obiettivo fu l’installazione sulla Stazione Spaziale dell’AMS-02, lo Spettrometro Alfa Magnetico per la rilevazione dei raggi cosmici e per esaminare le fondamenta della “materia oscura” e l’origine dell’universo. Proprio da questo storico viaggio, che chiuse una pagina gloriosa quanto tragica della storia dell’esplorazione spaziale, prende le mosse la nostra intervista, svoltasi prima di una conferenza al Palaexpo nel quadro delle iniziative organizzate dall’Inaf per la mostra “Macchine del tempo”, dedicata al racconto dell’ingegno astronomico italiano da Galileo ai giorni nostri.
Lei ha partecipato all’ultima missione di Endeavour, penultima del programma Shuttle, e ha fatto parte del Tiger Team che ha indagato sul disastro del Columbia. Lo Shuttle è stato archiviato troppo in fretta?
“Lo Shuttle aveva vari problemi ma aveva un potenziale enorme. Giustamente, il 1 febbraio 2003, l’evento del mancato rientro a terra della missione Sts-107 ha segnato la storia dell’esplorazione umana dello spazio, in negativo ovviamente. È stata una tragedia che ha cambiato tutti i paradigmi. Da allora c’è stato un periodo durante il quale gli Usa hanno continuato a usare lo shuttle per missioni che non potevano non fare per completare la stazione; poi ne hanno fatta un’altra, la mia, per portare a bordo della stazione l’Alpha Magnetic Spectrometer che è un gigantesco rilevatore di antimateria, materia oscura. Poi tutti gli shuttle sono finiti nei vari musei tra Los Angeles, New York, Houston e Washington e forse non sarebbe stato necessario. Nel 1984 non avrebbero dovuto identificare lo Shuttle come macchina operativa, come fece il presidente Reagan dopo il terzo volo. Una macchina operativa è qualcosa che prendo ed è sicura. Ma nessuna macchina è sicura dopo tre voli. Gli aeroplani che diventano operativi, cioè accessibili al pubblico, fanno centinaia di voli. È lo stesso errore che abbiamo fatto in tempi recenti con lo Spaceship 2 di Richard Branson, che siccome ha funzionato una volta funzionerebbe per sempre. Il mondo aeronautico non è così, il mondo spaziale ancora meno. Il concetto di riutilizzabilità fa la differenza. In origine lo Shuttle doveva atterrare e, tempo una settimana, ripartire. In corso d’opera hanno scoperto che era molto più complicato, non bastava una settimana, non bastava neanche un mese, per ciascuna macchina ci volevano mesi. Il concetto non era “reusable” ma “refurbishable”: smontare la macchina completamente e rimontarla ogni volta. Questa mostra si chiama “Macchine del tempo” e il grande paradosso dello Shuttle è che è arrivato prima del suo tempo, quando non eravamo ancora pronti come tecnologie, capacità operative e psicofisiologia umana del volo in alta quota. Gli ingegneri della Nasa sono stati bravissimi, hanno fatto un lavoro incredibilmente positivo ma, da un altro punto di vista, dove abbiamo iniziato nel 1981 con il primo volo è dove ancora eravamo nel giugno 2011 quando c’è stata l’ultima missione, della quale ho fatto parte. Per trent’anni ci siamo ripetuti senza riuscire a fare il passo più avanti e abbiamo perso una grande opportunità”.
Al momento non è ancora disponibile un nuovo spazioplano che prenda il posto dello Shuttle, per quanto ci siano vari progetti in corso di sviluppo. Quanto è importante il superamento dell’attuale sistema basato solo sui lanciatori per il futuro dell’esplorazione spaziale?
“I lanciatori sono biglietti di sola andata, un concetto preistorico. È come se cambiassi macchina ogni volta che vado da casa a lavoro, è impensabile. Siamo andati avanti così per 60 anni. Lo spazioplano porta in sé il concetto fondamentale della riutilizzabilità: gli aeroplani sono fatti così, non li costruisci per usarli una volta sola ma per decollare, atterrare e ripartire. Il razzo nasce ai tempi del V2, come arma, come strumento per fare una cosa una volta sola. Sono due tecnologie differenti e parallele e a un certo punto, ironicamente, ha avuto maggior fortuna la seconda. Dal punto di vista industriale, è chiaro che è più semplice costruire un razzo che fare uno spazioplano e quindi in 60 anni di spazio, dallo Sputnik e Gagarin in poi, tutti hanno messo il massimo dell’attenzione a fare la cosa più semplice. Questo è cambiato solo di recente, quando negli Usa si è innescato questo nuovo fenomeno della new space economy con l’ingresso dei privati, soggetti eclettici e stravaganti come Jeff Bezos ed Elon Musk, che si è inventato questa areonautizzazione dei razzi. Musk capisce la profonda contraddizione del razzo come biglietto di sola andata, quindi lo fa atterrare e ci riesce pure ma è chiaro che quello non è il futuro, è un po’ contronatura usare per spingere in giù lo stesso motore che viene utilizzato per spingere in su”.
Quali sono quindi gli attuali limiti dei vettori di SpaceX?
“La tecnica di atterraggio dello Starship è assurda. Lo si fa cadere in caduta libera e all’ultimo momento lo si mette in verticale e atterra. Musk potrebbe ispirarsi alla famosa ‘Aquila’ di Spazio 1999 che aveva i razzetti: io devo essere stabile prima di accendere i motori, non posso pensare di gestire un atterraggio in configurazione instabile. Il razzo che cade è instabile e la fisica è la fisica, non c’è modo di cambiarla. Con l’intelligenza articiale facciamo miracoli, quindi è anche possibile che a un certo punto riusciremo a rilanciare e a riutilizzare razzi ma sarà soprattutto per il trasporto logistico e con persone a bordo, il margine di rischio è troppo alto, è come fare la roulette russa, potrebbe andar bene e potrebbe andar male”.
A rilanciare lo spazioplano era stato Richard Branson con Virgin Galactic, che si è inventato l’idea del turismo spaziale…
“Richard Branson ha puntato molto, da uomo di business e di spettacolo, su questo nuovo mondo dell’economia spaziale partendo dal turismo. Aveva immaginato un suo posto nella storia come il primo che aveva aperto al turismo spaziale non capendo di cosa stesse parlando. Il turismo spaziale come business non può esistere. Volare nello spazio è una cosa molto bella, è incredibile uscire fuori dall’atmosfera e guardare la Terra dal di fuori ma non è piacevole e in nessun modo può essere identificabile come attività turistica. La psicofisiologia umana nello spazio è tale per cui al meglio un’esperienza di volo può essere identificata come sport estremo. Questo è stato il motivo per cui Virgin Orbit, consorella di Virgin Galactic, ha chiuso i battenti e Branson sta facendo fatica. È un peccato, perché Branson ha ripreso il concetto di spazioplano. È vero che decollano mothership e navicella ma comunque è un decollo da pista con riatterraggio in pista, quindi la tecnologia è quella giusta, la strada è quella giusta. Il contesto è sbagliato, quello del turismo spaziale”.
Ritiene che l’esercizio della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) possa essere prolungato oltre il 2030?
“Verosimilmente lo allungheranno, il fattore limitante sono i moduli, macchine che, anche se non le usi, si impolverano. E lì comunque c’è gente che mangia, c’è gente che beve, ci sono i bagni, quindi dopo un po’ i moduli si usurano. La Mir, la precedente stazione spaziale esclusivamente russa messa in orbita nel 1985, dopo 15 anni era talmente compromessa e contaminata che hanno provato a ripulirla manualmente ma era praticamente impossibile, quindi la hanno deorbitata. La differenza è che la stazione spaziale è molto più grande, quindi è meno utilizzata e inoltre la costruzione è iniziata nel 1998 ed è finita nel 2011, quindi gli ultimi moduli sono molto più nuovi,. Secondo me l’Iss può continuare tranquillamente ad andare avanti anche oltre il 2030, magari si potrebbe sganciare e dismettere i moduli più vecchi e montarne di nuovi. Le altre due ipotesi sono darla in gestione ai privati e deorbitarla, facendola distruggere. Non sarebbe solo un peccato ma ci sarebbe anche un’enorme quantità di materiale che finirebbe in fondo all’oceano. Quindi auspico che ci sia un modo per riciclarla in altri schemi e in altre modalità”.
E qual è il futuro della collaborazione con la Russia? Da una parte Mosca, alla luce delle tensioni in Ucraina, ha alluso più volte all’intenzione di lasciare il programma, dall’altra la collaborazione con Usa ed Europa è proseguita e non è stata ancora presa una decisione definitiva in merito.
“È un tema interessante perché l’Iss nasce per forte volontà del Congresso americano, soprattutto per avere un dialogo con l’ex Urss. L’equilibrio geopolitico e geostrategico è la motivazione principale per cui il Congresso ha voluto che la Nasa si imbarcasse in questa incredibile avventura. Io ho volato tre volte – 2002, 2005 e 2011 – e ho visto la stazione nascere, crescere e arrivare a maturità ed è incredibile passare dalla parte russa alla parte americana. Sono due mondi differenti, è come attraversare il confine in un attimo; sono culture differenti, tecnologie differenti, lingue differenti unite da un’unica interfaccia elettromeccanica e la cosa più incredibile è che la prima volta che si sono agganciate assieme è nello spazio. Dal punto di vista della complessità ingegneristica è un successo incredibile, anche perché dal ’98 non c’è stato un incidente che uno, quindi è stato un successo al 100%, sia dal punto di vista della sicurezza che per la creazione di una collaborazione talmente forte che ancora oggi sopravvive. Se guardiamo i rapporti tra gli americani e i russi, non esistono a parte la stazione, ci sono ancora oggi astronauti russi a bordo che stanno con gli americani, americani che vanno con la Soyuz russa e russi che vanno con vettori americani. La parola Soyuz in russo significa proprio unione e l’Iss sta riuscendo a sopravvivere come momento di unione e indipendentemente da tutte le condizioni al contorno”.
Ritiene troppo ottimista l’obiettivo degli anni ’30 per la prima missione umana su Marte?
“Marte non la vedremo noi, non la vedrà la nostra generazione. La Terra è a 400 km dall’Iss, a 400 mila km dalla Luna e a 400 milioni di Km da Marte. Fa molta differenza: per arrivare in orbita servono 8 minuti e 50 secondi; per giungere all’orbita lunare, con i sistemi propulsivi che abbiamo ora, servono alcune ore. Marte è a 400 milioni di chilometri, tutt’altro. Lo Starship di Elon Musk potrebbe tecnicamente farlo, il problema è rifornirlo perché, una volta arrivato in orbita, ha già consumato tutto il carburante. Non vedo le condizioni per arrivare a nemmeno una missione dimostrativa su Marte. L’opportunità è la Luna, è la superficie lunare, le caverne lunari per gli insediamenti umani perché sulla Luna ovviamente non hai la atmosfera e il campo magnetico è debole, quindi sei bombardato dalle radiazioni. Attività umane di lungo periodo sarebbero quindi possibili all’interno delle caverne. Ciò che farebbe la differenza è l’estrazione delle risorse extratmosferiche, l’unico modo sostenibile per assicurare la crescita dell’economia globale salvaguardando l’ecosistema terrestre. Per il resto, mi dispiace, ma nel 2030 non penso che vedremo qualcuno atterrare su Marte”.
In passato aveva fatto riferimento alla teoria degli universi paralleli in merito alla possibilità di intelligenze extraterrestri. Dal punto di vista fisico cosa intende?
“Chiaramente questo non c’entra nulla con il mio ruolo di astronauta, in una precedente vita studiavo Fisica… È abbastanza divertente vedere quando gente cerca segnali di vita extraterrestre e cerca di fotografare i cosiddetti Ufo. È divertente e anche ingenuo perché noi siamo esseri tridimensionali, vediamo e interagiamo col mondo con il nostro cervello e i nostri sensori che sono tridimensionali ma l’universo non è tridimensionale, Einstein ha introdotto il concetto di quarta dimensione, lo spaziotempo, e nella realtà è evidente, dal modo in cui la natura si esprime e dalla fisica, che ci sono altre dimensioni. È quindi probabile ci sia una coesistenza tra diverse interpretazioni dell’universo, potremmo anche essere nello stesso posto e non interagire l’uno con l’altro a meno di strani fenomeni che probabilmente sono queste situazioni che chiamano Ufo”.