A novanta anni di età, nel riparo della sua casa come aveva espressamente richiesto, se n’è andata un’icona del cinema felliniano, Sandra Milo – Sì, “icona”. Non “musa”, come scritto da altri.
La preferenza al termine che dà l’idea di un’opera immensa e indimenticabile, grazie alla immagine di sé, è dato dal fatto che Sandra Milo oltre il capolavoro assoluto che è Federico Fellini Ottoemezzo la si ricorda in Il generale Della Rovere, Adua e le compagne, Fantasmi a Roma, Giulietta degli spiriti, ma in ciascuna di queste opere non la si può che ricondurre alla struggente interpretazione del capolavoro felliniano.
Sandra Milo era il tipo di attrice che indossava la maschera appositamente disegnata da Fellini per lei o scelta per il fatto di avere quella maschera naturale. La donna apparentemente leggera e pronta a regalare evasioni emotive ma avente in sé inquietudini profonde serbate per un riserbo naturale.
Molti anni più tardi la si ricorda anche per la sortita in cui scappa dallo studio televisivo in piena trasmissione perché una persona al telefono gli dice di suo figlio Ciro nei guai. Non era vero. Tutti sospettano sia una sua trovata affinché il pubblico che l’aveva dimenticata parli di lei.
Ed era il mistero lasciatoci da Sandra Milo, l’ambivalenza del sogno teso a sublimare la dimensione più elegiaca dell’esistenza contenente in sé però tutta la mostruosa sofferenza sigillata e forzosamente stipata nell’oblio che però continua a parlare di sé.
In tal senso Sandra Milo non fu musa, bensì icona. Quell’immagine di donna con la parente leggerezza non riesce a celare la profonda sofferenza per un’esistenza inautentica. Potrebbe apparire come emblema dell’esistenzialismo italiano ma la frivolezza a cui si è coscientemente cimentata non la rende un personaggio credibile, almeno non all’altezza da tanto ruolo.
Se ne va, quindi, come l’incompiuto. Non è riuscita a dare di sé tanto spessore e tanta capacità di dare appieno l’ambivalenza del coprire la sofferenza e del limite nella gioia per la vita.
E su quest’ultimo tema deve essere ricordata come una donna in grado di tematizzare il problema dell’eutanasia, quando, sempre in trasmissione – probabilmente a sorpresa – rilevò – senza dirlo – esplicitamente, di aver interrotto i contatti con la macchina che tenevano in vita una persona molto cara perché era stanca di vederla soffrire.
Come tanti, soffrì della mannaia moralistica che si avventò sui socialisti dopo il terremoto di Tangentopoli. Lei, si era fatta testimonial molto spesso del marchio di Craxi e company, senza mai rinnegare le scelte fatte.
Esistenzialismo, evasione-sofferenza, vitaemorte, riformismo impossibile … Possiamo dire che ha abbracciato molte delle contraddizioni dei nostri anni. Ma sempre con la levità di chi le allevia perché trattasi di tematiche non sue, pur vivendone la conseguenza di tanta incongruità. Ed è, per tanto, da poterla assumere in consonanza – non solo in assonanza – con un’altra donna lasciataci dalla classicità: la Venere di Milo, il cui movimento delle braccia sembra voler avvolgere i mali del mondo, ma secondo altri si guarda solo allo specchio tenendo a non rimanere totalmente nuda.