Primo Maggio! A lavoro per celebrare IL Lavoro. Nei settantasette anni di repubblica il concetto di lavoro è stato celebrato in diversi modi durante la festività del Primo Maggio. Tanto per continuare a parafrasare il Marx delle Tesi su Feuerbach: “si tratta di cambiarlo, invece”.
Ed il lavoro in effetti è cambiato. Il passaggio dal lavoro manuale – sui campi o in fabbrica – a lavoro intellettuale nel mondo dell’informatica per grandi e piccole imprese è solo un esempio dell’individuazione di una nuova tipologia di manodopera. Ma la costante della sottomissione ai criteri dell’attività salariale e ai rigori di scelte dirigistiche sulla durata e permanenza dei rapporti di dipendenza non hanno cambiato il paradigma sostanziale di questo mondo.
IN compenso è cambiato il modo di festeggiare questo concetto. Dal comizio in piazza San Giovanni, durante gli anni della Prima Repubblica, al concertone sempre a Piazza San Giovanni, durante gli anni della Seconda Repubblica, fino al Circo Massimo dall’edizione del 2024. La festa è festa però non ha bisogno della benedizione del Santo preposto ad onorare l’idea e nemmeno i festeggiamenti possono turbare la vita di troppi cittadini romani. Quantomeno se ne diminuisce l’onere. A ridosso dell’Aventino vive minor numero di persone. Ed è così che sia il lavoro svolto, sudato, maledetto e necessario, sia il lavoro come festività scelgono di declinare le aspettative abbassando le pretese ed il clamore.
Si tratta dell’esemplificazione di come il lavoro, nella sua sostanza, esca dai notiziari come fonte di contraddizione economica e di classe per diventare argomento di cronaca, quando muore qualche sventurato in cantiere. Oppure quando un caso di disperazione sociale mette i riflettori sulla qualità della vita del soggetto di cronaca per evidenziarne l’alto grado di sfruttamento. Meglio ancora quando in manifestazioni di piazza è celebrato come vertenzialità, ma sempre come premessa di uno scontro politico eternamente in atto. Si tratta del continuo braccio di ferro tra governo (qualsiasi in carico) e opposizione (inevitabilmente presente). Anche in questo caso, quindi, viene a mancare quella spinta innovativa presente nel suo significato originario che consiste nel cambiare la materia e il mondo per trovare condizioni di esistenza migliore.
Ed è così, quindi, che anche nel modo di festeggiarlo si è passati a un senso di rimozione generale. Dal celebrarlo con l’ennesimo comizio in piazza dove si ripetevano stancamente gli obiettivi di lotta e di emancipazione di classe dei lavoratori al giubilarlo con canzoni e tanti giovani, molti dei quali senza lavoro. Come se il lavoro fosse passato da occasione di riscatto e di valenza per la crescita e un qualcosa da sorvolare nell’evasione necessaria in un mondo che non offre scenari per il futuro.
E quindi, sebbene in quel sipario di Prima Repubblica non potrebbe mai riproporsi oggi per quell’antico ripetersi come rito, il non celebrarlo nelle sue potenzialità attuali, oggi, aggiunge quel senso di finitezza dei nostri rapporti di vita dove non si capisce dove stiamo andando. Perché è il lavoro che dà la direzione. Ed operare per una direzione implica sempre un lavoro. Né l’uno né l’altro ci sono oggi.