“Governare l’Italia non è difficile. È inutile”. Diverse fonti attribuiscono la paternità di questo asserto. Le più credibili la attribuiscono a Giovanni Giolitti. Oggi potrebbe essere la desunzione dal discorso di Panetta, governatore della Banca d’Italia al meeting di Rimini.
Fuori di boutade, più esattamente ha detto: “l’Italia è l’unico paese dell’area dell’Euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione”. E non si può che considerare l’asserto come un richiamo all’attività degli addetti al bilancio di questo governo impegnati a redigere la nuova legge finanziaria che si preannuncia lacrime e sangue.
IL pianto per governare il debito è un leitmotiv da circa trenta anni fa nel nostro paese. Le conseguenze sono tutte all’interno di questa semplice asserzione: l’impossibilità materiale di porre dei tagli perché nessun governo in carica, anche tecnico, prenderebbe mai la responsabilità di tagliare pezzi di stato sociale per il rigore nei conti e non dipendere troppo da soggetti esteri sconosciuti.
Il problema dalla riduzione debito si rimanda di governo in governo e vorremmo dire da una logica ideologica e di politica sociale totalmente diverse. Ma non è così. Davanti ai numeri non esiste sinistra o destra. Tantomeno davanti alla necessità di ridurne le proporzioni sconvenienti per l’agibilità di autogoverno di un sistema-paese e non viversi nella continua normalità dell’essere governati da interessi sconosciuti ai più e ben più grandi di coloro che sono chiamati a responsabilità nell’esecutivo.
Tutti sanno che siamo arrivati a quota tremila miliardi. È la cifra del nostro debito. Ed è un numero esorbitante ma che non rende l’idea se non accanto all’altro dato del nostro prodotto interno lordo pari a circa duemila miliardi. E all’altro dato per cui per l’anno in corso lo Stato italiano onorando il debito dovrà pagare novantatré miliardi di debito.
Una misura c’è: tagliare i costi della macchina statale, oramai farraginosa, pesante, scarsamente funzionale. Questo significherebbe tagliare tanti uffici dentro le amministrazioni pubbliche a tutti i livelli e secondo le diverse sfere territoriali di competenza. Ma è come chiedere a qualcuno di tagliarsi le mani e i piedi per il bene collettivo. Non c’è interesse di chi dirige questa macchina burocratica nel limitare le sue proiezioni perché quelle sono la fonte del loro potere e della facoltà di condizionamento verso qualsiasi governo in carica.
Ma ci sono anche le inutili politiche degli incentivi. Questo governo ha promesso trentasei miliardi per le imprese che secondo insigni economisti sono del tutto inutili. Lo stesso vale per una pioggia di bonus per la cittadinanza diffusa che non riescono ad attenuare il senso di crisi e di impoverimento epocale oramai entrato nel pessimismo degli italiani.
Anche le misure per semplificare la vita delle imprese con la burocrazia si tradurranno con un nulla di fatto. Lo ha detto il costituzionalista Sabino Cassese in un editoriale di ieri sul Corsera.
Quale azione è possibile, allora, per qualsiasi governo in carica se non l’affannosa ricerca di mettere una pezza alle voci maggiormente esorbitanti? Il coraggio è un tratto che non è eleggibile tanto più se i suoi effetti implicano un cambiamento totale. Ma questo cambiamento si presenta come una necessità inevitabile a meno di decidere di farsi governare da coloro che hanno in mano il nostro debito. Ma la fortuna per la continuazione di coltivare le nostre illusioni è proprio questa: non conoscerli. Perché siamo anche noi.