REBIBBIA – Non possiamo capire cosa significhi vivere la fine dell’estate all’interno di un carcere, mentre la vita fuori riprende il suo ritmo martellante e non possiamo sapere cosa vuol dire vivere il caldo infernale all’interno di una cella mentre il mondo fuori d’agosto si lamenta del sole che arroventa una spiaggia assolata o non ti fa dormire la notte.
Nello scambio epistolare con Marco Sammarini, il detenuto racconta il suo dolore che cerca di alleviare con la filosofia, la poesia, la letteratura ed una riserva di speranza che, purtroppo, spesso e malvolentieri vacilla. C’è sempre il sostegno delle persone care che non dimenticano e, anche se non sanno direttamente cosa significhi trovarsi a vivere in quelle condizioni, sentono profondamente il dolore di avere in galera un proprio caro, a detta dell’opinione pubblica, innocente.
Ma la legge purtroppo parla chiaro, così come le sentenze di Cassazione, perché Sammarini era stato denunciato dall’ex moglie per maltrattamenti e violenza sessuale. L’argomento era già stato trattato in un articolo, dopo aver sviscerato a fondo la questione, eravamo riusciti a tirar fuori un pezzo di cronaca che al massimo metteva al corrente l’opinione pubblica di un caso di presunta malagiustizia. «Ho passato cinque anni a scrivere la mia storia» scriveva Marco nella lettera che aveva fatto reperire al giornale, aggiungendo: «contesto un Sistema che si è rivelato giustizialista a prescindere dalle evidenze contrarie all’ipotesi accusatoria». Di fatto, quello che chiedeva Marco Sammarini in quella lettera, non era altro che la considerazione del manoscritto che raccontava la sua vita assieme a questa donna che, dopo vent’anni, l’ha infine denunciato per maltrattamenti e violenza sessuale.
A fine agosto mi arriva una nuova lettera da Marco, una lettera di ringraziamento per quel poco che, come giornale, siamo riusciti a far emergere, ma anche perché dietro le sbarre c’è un essere umano e in me vince sempre quel desiderio affinché quella persona capisca il profondo significato che si muove nel sottosuolo di quella maledetta esperienza, così ho sostenuto Marco mandandogli libri sul Buddismo di Nichiren Daishonin, affinché potesse provare ad aggrapparsi alla fede, non in senso divinatorio, ma affinché egli potesse capire che ciò che l’aveva trascinato dietro le sbarre non era altro che il frutto della somma di tanti eventi concatenati ad un unico grande peso che, molte filosofie orientali, chiamano Karma. Il Karma si può trasformare, anche il più pesante di tutti, anche se sei il peggior criminale sulla faccia della terra, hai diritto anche tu a trasformare la tua vita per la tua felicità e, di conseguenza, per quella delle persone che ti circondano.
Purtroppo però non è semplice.
La vita in carcere è dura, i nostri dialoghi avvengono in maniera sporadica ed epistolare, ma credo che qualsiasi forma di sostegno sia fondamentale per la dignità della vita di un essere umano, a prescindere dal reato che ha commesso, a prescindere dal fatto che sia innocente o meno.
«Il destino non si può cambiare, ma solo accettare», mi scrive dolorosamente Marco nella sua lettera ed io, con la mia maledettissima empatia, rispondo con lo stesso dolore che, invece, esistono infinite possibilità in un singolo istante di vita, che non c’è un disegno, che non esistono uomini condannati dalla vita o graziati. Esistono soltanto infinite scelte di azione e di pensiero che in ogni istante possiamo mettere, spostare o cambiare. È proprio nei concetti di ciclicità e di impermanenza che nessuna esperienza di vita può risultare letale, ma ognuna di essa può essere un nuovo punto di partenza per rilanciare.
Sembra assurdo e arrogante trasmettere questi insegnamenti universali ad un uomo le cui speranze sono andate perse, quanto sembra assurdo ammettere che la sofferenza è sofferenza ed è relativa per ogni singolo essere umano. Scoprire che esiste un modo per arrivare ad una felicità che prescinde dalle circostanze attorno, raccontando la propria esperienza di fede e dire “funziona”, è la gioia più grande che si può trasmettere con compassione ad un’altra persona che sta attraversando il mare della sofferenza fornendogli la nave giusta, per l’appunto.
Infine nella lettera Marco racconta che, nella sentenza di Cassazione, non c’è più spazio per un eventuale ricorso e conclude con una citazione di un libro sull’esistenzialismo che mi ha consigliato di leggere:
Ho conosciuto bene e male,
peccato e virtù, giustizia e ingiustizia.
Ho giudicato e sono stato giudicato.
Sono passato attraverso la nascita e la morte,
attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l’inferno
e alla fine ho capito che io sono nel tutto
e il tutto è in me”
-Inayat Khan-