C’è un problema per qualsiasi liberal democrazia degna di questo nome. Le parti in campo, almeno due, debbono concorrere al pieno delle possibilità e in piena determinazione nell’affermazione delle loro idee sul mondo.
Quando questo non avviene, quando una delle parti dimostra evidenti lacune, problemi di mancanza di leadership e capacità gestionale delle proprie qualità, è un problema per la democrazia tutta. Inevitabilmente il livello della competizione si abbassa e anche l’altra parte non dà il meglio per il fine generale di rendere al meglio per la cosa pubblica.
È quanto sta avvenendo negli Stati Uniti con la povera Kamala che proprio non ne azzecca una. Proprio in rotta di conclusione dell’estenuante campagna elettorale dà chiari segni di cedimento. Ma peggio di lei fa colui che dovrebbe essere il primo supporter in persona: il presidente degli Stati Uniti ancora in carica Joe Biden. Nel cercare di sostenerla riesce invece a fare peggio della peggiore situazione di inseguitrice in cui si trova ora Kamala Harris.
Nel commentare le sortite di Donald Trump, Joe Biden dice esplicitamente: “dobbiamo arrestarlo” – rendendo anche in inglese il doppio senso delle parole che possono essere intese come misura giudiziaria per fermare la sua ascesa. Sempre Biden definisce “spazzatura” coloro che sono accorsi ai comizi di Trump. Tanto che il candidato presidente repubblicano ha facile gioco nel presentarsi come netturbino alla guida del camion che raccoglie la sua spazzatura. Come dire: io sono amico e custode di tutti gli americani, anche i dispersi, anche i diseredati. Biden e i democratici guardano solo all’enclave.
Ma poi non funziona lei. Kamala Harris ha sempre detto di avere le idee chiare sugli Stati Uniti e di avere un piano. Non ha ancora raccontato ai suoi possibili elettori quale è. Molto bella, elegante e chic, fa prese nell’ upper class che però si divide e propende fortemente per i repubblicani. Neanche quello che doveva esser il grande sponsor, Jeff Bezos e il suo Washington Post la sostengono esplicitamente. Pare che il miliardario abbia riferito che la scelta di astenersi dall’esposizione in campagna elettorale sia la pratica sicurezza della vittoria di Trump e il temere sue eventuali ritorsioni. In definitiva appare una dichiarazione a sostegno di Kamala Harris ancora più forte e senza esporsi in evidenza. Ma la mancanza di quel nome e quella testata brilla nei vuoti di campagna elettorale della bella candidata.
Non molto diverso dalle cose nostrane dove abbiamo un polo democratico (crisi epocale e globale del mondo progressista) che involge in sé stesso e si chiede come è riuscito a perdere una campagna elettorale vinta in partenza contro un candidato avente già una carica da sindaco, per cui non avrebbe perso nulla con la sconfitta. Soprattutto contro un avversario falcidiato dagli arresti della magistratura, quindi in una compagine di liste civiche quasi a temere di perdere la faccia.
Anche da noi come sopra. Non c’è da giubilarsi se un avversario si dilegua autonomamente. La sfera politica in una liberal democrazia non somiglia alla situazione di una battaglia militare ideata da Sun Tzu dove il massimo consiste nel vincere per ritirata del nemico. In democrazia c’è necessità dell’avversario perché la sua crescita competitiva impone la crescita di strumenti e di misure adottate dal campo avverso.
Uno dei motivi della crisi dell’Occidente consiste proprio nell’appiattimento della proposta nella gestione delle cose pubbliche. Ed è l’appiattimento che potrebbe corrispondere alla riduzione a teatralità del dibattito e la pochezza di intervento effettivo veramente offerta a chi governa. (…). Ma questa è un’altra storia.