Negli ultimi anni, il quotidiano La Repubblica si è distinto sempre più spesso per la pubblicazione di contenuti volti a diffondere, senza soluzione di continuità, una certa quantità di odio contro l’intera categoria maschile. Tale strategia comunicativa, peraltro, appare ormai con chiarezza come il frutto di una “policy editoriale” decisa “a tavolino” e inserita nella programmazione giornaliera della redazione, la quale vi si dedica con impegno e regolarità.
Gli esempi dell’applicazione sistematica di questa visione di genere sono moltissimi, tanto che se ne potrebbe fare uno studio analitico di valore accademico. In particolare, i continui riferimenti alla ideologia anti-uomo porta spesso i redattori e capiservizio ad alcuni “eccessi” che finiscono col tradire le reali intenzioni dell’editore. Infatti, a parte i continui richiami alla terminologia cara al femminismo più aggressivo – quello degli anni ‘60-‘70 del secolo scorso, al confronto, era come una pacifica fiaccolata notturna – e ai falsi miti sociali (lotta al “patriarcato”, violenza “di genere”, “femminicidio” e “gender pay gap”) portati avanti con rigore da Repubblica, esiste una intera sezione (“Moda and Beauty”) dedicata alla pubblicazione di storie quasi completamente inventate che fungono da pretesto per mettere in atto la solita propaganda di odio contro il genere maschile.
Proprio di recente, un articolo “illuminato” (https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/20…QJFC-0Ewsg07v9w) ha permesso a molti lettori – leggere i commenti inferociti sui social per averne immediata conferma – di notare questi eccessi della redazione, tipici di quanti vengono colpiti dal fervore religioso. Nell’articolo in questione, una donna descrive la relazione a distanza con un uomo che vive ancora con i suoi genitori, che non vuole trasferirsi per stare insieme alla compagna e che non vuole neanche lasciare la casa dei propri genitori pur avendone la possibilità economica. Dall’altro lato abbiamo una donna che attraverso grandi sacrifici è giunta ad una realizzazione professionale. La donna decide di “sacrificarsi” e di rinunciare al contratto a tempo indeterminato pur di trasferirsi e cercare lavoro nella città in cui vive il compagno. Qui, in occasione di un colloqui di selezione, la dirigente che dovrebbe occuparsi della valutazione della sua candidatura le dice che difficilmente l’assumeranno in quanto, essendo donna, potrebbe rimanere incinta.
La risposta della giornalista Flavia Brevi è un capolavoro di eccesso agonistico femminista: “…il nodo sembra essere sempre quello: la scelta della donna di privilegiare la relazione piuttosto che la carriera (…) È una propensione e siccome descrive il comportamento del gruppo “genere femminile” potrebbe farci pensare che sia frutto di un condizionamento culturale piuttosto che di un’innata vocazione ai rapporti affettivi.(…) Il problema è a monte: arrivare a determinate conclusioni basandosi su uno stereotipo di genere o su un assunto prestabilito nasce in una società che connette in un continuum già osservato e studiato i doppi standard evidenti (…) al femminicidio. Sembrano affermazioni gravi – e sicuramente le due circostanze sono drammaticamente diverse – ma a guardarla da lontano la prospettiva è quella…”.
In pratica, la giornalista di Repubblica sa benissimo che “le due circostanze sono drammaticamente diverse”, ma le associa ugualmente pur di fare disinformazione telecomandata. E allora, per tracciare un percorso razionale alle falsità appena lette, partiamo da alcuni fattori sociali verificati ogni anno dall’ISTAT. Primo: le donne riescono molto più facilmente ad essere genitori rispetto agli uomini. Secondo: molte più donne riescono a sposarsi rispetto agli uomini. Terzo: la quasi totalità delle separazioni coniugali sono chieste dalle donne. Pertanto, il principio per cui siano le donne il genere per cui è più difficile l’accesso alla maternità, alla costruzione di una famiglia e alle relazioni è smontato e smentito dai fatti. Quarto fattore, lo spostamento di ricchezza all’interno di una coppia: è molto più facile trovare uomini che destinano una parte cospicua della propria ricchezza alle donne, sotto forma di reddito e patrimonio, che il contrario. In pratica, sono molti di più gli uomini che lavorano moltissimo e danno poi una parte cospicua del proprio reddito alla propria compagna rispetto al caso inverso, ossia donne che lavorano tantissimo per mantenere nel benessere il proprio marito disoccupato o semi-disoccupato.
Relativamente al quinto fattore sollevato dall’articolo, e cioè il cosiddetto gender pay gap, si tratta di una pure invenzione della propaganda femminista ripresa con modalità ingannevoli e ossessive da Repubblica: in Italia non è possibile pagare meno una donna rispetto ad un uomo, poiché la parità retributiva è prevista dalla Costituzione, dalla legge Anselmi, dai contratti collettivi nazionali; per non parlare poi delle commissioni e dei consigli istituiti presso gli enti nazionali e locali, di tutte le iniziative volte esclusivamente a favorire l’occupazione e la formazione femminile, le quote rosa (propriamente dette o sotto altro nome). Semmai, il problema è esattamente l’opposto: una pletora ingiustificata e ingiustificabile di iniziative volte unicamente verso il genere femminile, di leggi sulla parità di genere che vengono per dichiarazione stessa degli organi della pubblica amministrazione disapplicate qualora la loro applicazione possa portare ad assumere più uomini che donne. Infatti, la riforma Brunetta (decreto-legge 36/2022 e relativa legge di conversione) all’articolo 2 comma 7 ha introdotto, in applicazione del PNRR, il principio di parità di genere nella pubblica amministrazione. Il DPR 82/2023 ha attuato tale principio andando a modificare l’articolo 6 del DPR 487/1994 introducendo come titolo di preferenza a parità di merito l’appartenenza al genere (rectius sesso) meno rappresentato nella categoria gerarchico-funzionale di inquadramento. Ebbene, siccome in diversi enti nell’area dei funzionari le donne sono in maggioranza schiacciante, la preferenza si sarebbe dovuta applicare nei confronti degli uomini. Per evitare che ciò avvenisse, la norma è stata disapplicata.
Sesto fattore: la povertà REALE è una condizione molto più diffusa tra gli uomini che tra le donne, le quali hanno una possibilità di accesso alle risorse economiche della controparte maschile che agli uomini è sconosciuta. Quindi, la quantità inferiore di donne che scelgono di trasferirsi rispetto agli uomini si potrebbe spiegare non con un “sacrificio”, ma con una semplice valutazione di opportunità: in altre parole, non ne hanno bisogno, perché hanno accesso alle risorse del marito, mentre il fenomeno contrario è statisticamente irrilevante: quanti sono gli uomini che hanno accesso alle risorse della compagna? Quante sono le donne che sposano consapevolmente uomini disoccupati e provvedono integralmente (e vita natural durante) al loro mantenimento? Quante sono le donne che impiegano il compagno nell’attività commerciale che hanno avviato, istruendolo e avviandolo a quel mestiere o professione? In Italia, se c’è una cosa che non manca sono i disoccupati: perché tutte queste donne non scelgono di sposarne qualcuno, oppure di pensare loro al mutuo e a tutto quello che serve in casa? E’ una azione semplice da mettere in atto, e nessuno glielo impedisce: perché non lo fanno?
Per le femministe, il potere consiste solamente in un reddito maggiore; Le femministe che urlano «gli uomini hanno il potere” rinforziamo il presupposto che il reddito, lo status e l’autorità sugli altri siano più importanti dell’affermazione dei valori interiori, di cui evidentemente scarseggiano. Le donne che avvertono che gli uomini hanno il potere sono probabilmente quelle che più rinforzano l’acquisizione maschile dell’immagine del potere e, se possono, sposano proprio quegli uomini che la fanno propria.
Settimo fattore: la salute. Nel campo della salute, le donne raggiungono un miglior risultato degli uomini: in media vivono 7,8 anni di più. Dal 1920, nei paesi Occidentali il divario nella longevità maschio-femmina è salito del 700 per cento (da 1 a 7,8 anni). Pertanto, considerando le vittime del servizio militare e degli incidenti sul lavoro, possiamo dedurne che gran parte delle differenze si può far risalire ai diversi ruoli assegnati ai due sessi. Nel campo della salute fisica e della longevità, quindi, il potere maschile (la padronanza sulla propria vita) inizia a calare in modo considerevole rispetto a quello femminile: non c’è maggior perdita di potere rispetto a quella di perdere la propria vita.
In chiusura, riprendendo il racconto del colloquio di lavoro “fallato” dalle possibilità della lettrice di rimanere incinta, la giornalista ci restituisce con il dono dell’assurdo tutte le motivazioni per cui dobbiamo fronteggiare il femminismo suprematista che sta ammorbando la Società Civile: “… Il fatto che la responsabile (la dirigente con cui aveva sostenuto il colloquio, ndr) sia donna dimostra solo che tutte e tutti abbiamo introiettato una cultura sessista…”.
Che dire, un capolavoro di manipolazione giornalistica strumentale alla auto-assoluzione di tutto il genere femminile: la dirigente che ti esclude perché potresti rimanere incinta non è una stronza, ma una vittima della cultura degli uomini. Applausi.