Alla vigilia dell’inaugurazione della mostra fotografica “Morgan: Naples, Rome & N.Y.”” che si terrà a New York a gennaio 2025, parliamo con il fotografo Morgan Capasso che scatta ed espone le sue immagini in Italia e negli USA
Morgan Capasso è un fotografo insolito per formazione e percorso. Studia fotografia negli USA dove si trasferisce da Napoli, espone al Modern Art Museum di New York e lavora con le grandi gallerie di Long Beach, Newport e Pasadena. Ha per maestro un fotografo di moda che gli insegna uno stile fashion statunitense. Ma, dopo quest’esperienza avventuriera, torna in Italia e ne riscopre la bellezza paesaggistica e spirito creativo.
– È noto che il nome è un presagio. Morgan è un tuo nome vero o un nome d’arte? Che significato ha?
– È il nome che mi è stato dato alla nascita. È diverso, insolito rispetto ai nomi che si danno dalle mie parti. A mia madre piacevano cose esotiche, lei adorava gli Stati Uniti. Ma non è l’unica ragione. Nel 1960 uscì al cinema il film “Morgan il pirata” di Primo Zeglio e André de Toth interpretato da Steve Reeves. Era, senza dubbio un personaggio affascinante. L’insolito nome mi ha, in effetti, dato anche un destino insolito.
– Come nasce la tua passione per la fotografia? Perché decidi di studiarla negli USA?
– È una decisione arrivata quasi per caso. Maneggiavo una macchina fotografica già all’età di dieci anni. Negli Stati Uniti mi sono recato per studiare inglese. Ho scoperto che esisteva anche l’opzione di abbinare agli studi linguistici quelli della fotografia ad uso commerciale. Così la mia passione da subito è diventata anche professione. A diciott’anni sarei uscito da un liceo scientifico, in Italia. Invece negli Stati Uniti, alla stessa età, ho terminato gli studi e ho iniziato da subito a lavorare trovando un’occupazione immediata. Per l’amor di cronaca, ho studiato fotografia al Long Beach City College e poi arte e giornalismo al Pasadena Art Center.
– Chi sono i tuoi maestri di fotografia, da quelli veri a quelli che ti ispirano a distanza e influenzano la tua arte?
– Chi mi segui ed influenzò agli albori era Frank Miller, il mio professore all’Università, che come fotografo faceva i servizi per Los Angeles Magazine e curava gli allegati del sabato e della domenica per i rinomati quotidiani. Realizzava editoriali di moda, Posso dire che il mio stile si ispira molto al suo. Per il nudo artistico prendo ispirazioni da Hamilton e Newton, alle foto glamour e fine art degli anni settanta, ottanta e novanta.
– In base alle tue esperienze professionali, come cambia il concetto di fare fotografia dagli USA all’Europa e all’Italia, in particolare?
– Ci sono ovvie differenze culturali. Secondo me, l’importante è prendere il meglio di ognuna di queste nazioni senza perdersi negli svantaggi che ci sono, anche se diversi, da entrambe le parti. Spetta al fotografo professionista non snaturare mai il proprio lavoro, andare sempre avanti con la propria ricerca, non smettere di essere chi si è. Adattarsi alle particolarità di un’altra cultura va benissimo, ma bisogna rimanere anche se stessi. In Italia, la fotografia come un mezzo di espressione artistica e di comunicazione alternativa a quella che passa attraverso la parola è ancora tutta da scoprire. Il retaggio culturale di alcune regioni italiane è tale che la fotografia viene vista, tutt’al più, come la documentazione di attività svolte o eventi organizzati. Non viene intesa come un elemento di bellezza capace di arricchire in modo sostanzioso la comunicazione linguistica. Manca ancora tutto ciò che è la comunicazione aziendale. Sta arrivando in Italia solo adesso, quindi, ci sarà ancora tanto da fare per metterci al passo con gli Stati Uniti e alcuni paesi europei. In più, a un lavoro nel campo fotografico in Italia mancherebbe, a mio avviso, la continuità.
– Perché, dopo esserti stabilito e affermato negli USA, hai deciso di rientrare in Italia?
Negli USA ho studiato le basi della fotografia e del relativo business: la promozione e la diffusione delle opere. Ho lavorato a New York e Los Angeles, ho esposto le mie immagini nelle gallerie d’arte e fotografia. Il mio rientro in Italia è stato dettato dal desiderio di tornare alle proprie origini, riavvicinarmi alla famiglia da cui allora mi dividevano migliaia di chilometri di distanza e nove ore di fuso orario. Mantenere i rapporti era diventato difficile. Dal punto di vista lavorativo, il rimpatrio è stata una grande perdita. La fotografia era allora considerata poco in Italia, a differenza del continente americano e dei paesi nordeuropei. I compensi ne parlavano chiaro.
– Perché fra tutte le città dove ti potevi stabilire al rientro hai scelto proprio Roma?
– È la capitale, è il centro geografico, è il centro dell’Italia in tutti i sensi. Di conseguenza, è la città ben collegata con il resto del paese e con l’Europa. È più facile viaggiare stando a Roma che non stando a Firenze o Bologna, altre città che possono vantare comunità artistiche molto forti e incisive nei loro rispettivi territori. La bellezza del paesaggio la colgo a Roma ad un angolo insolito o in un momento particolare. Ci lavoro come creando qualsiasi altro scatto: collego un’emozione o uno stato d’animo al luogo e al tempo. Ne nasce un’esperienza, ed è quella che poi interessa e incuriosisce lo spettatore. L’insieme di tutti questi fattori crea lo scatto finale.
– Cosa ti affascina in un volto e in una figura umana?
– Le espressioni, le emozioni che possono trasmettere. Dal corpo voglio portare fuori e immortalare l’innocenza. Ne fotografo l’essenza, la sensualità, l’innocenza. Lo preferisco senza veli, ma non ai fini di eccitare, bensì a quelli di raccontare la sua fragilità, sincerità e innocenza ancora intatte.
– I generi fotografici che hai fin qui attraversato?
– Direi che sono stati loro ad attraversare me. Il mio è un lavoro di sperimentazione. A me piacciono i colori estremi, schivo volgarità e sono sempre in cerca di purezza umana ed artistica. Mi interessa scoprire come posso creare un’immagine unica e acquisire, al contempo, la tecnica. Volevo verificare se le mie scelte artistiche portavano alla produzione di immagini di una qualità sempre più alta.
– Quali sono le difficoltà oggettive di fare il fotografo a New York, a Napoli, a Roma? Quali sono i vantaggi di ciascuna di queste opzioni?
– Beh, gli svantaggi li vedi un po’ ovunque. Sono stato educato alla fotografia a Los Angeles e New York, e alcune idee le ho tutt’ora ancorate lì. È un terreno molto creativo e intraprendente, ma lo svantaggio è (per me) che lì mi vedono un po’ come un estraneo. Eppure, vengo rispettato come italiano. L’Italia è la culla delle arti e della cultura. Lo svantaggio di lavorare in Italia è la mancanza di considerazione che ancora esiste nei confronti dell’arte fotografica. Ciò si ripercuote sulle tematiche affrontate dalla fotografia e sul ruolo di questa arte nelle arti, cultura e showbiz italiani. Più che un’arte e un’occupazione, la fotografia è ancora relegata a una specie di svago. È sinonimo di poca serietà. Ci sono tanti pregiudizi che, se non precludono, rendono quasi impossibile il lavoro.
– Ti senti più sperimentale o tradizionale come fotografo?
– Vengo da una vecchia scuola e mi considero equidistante dalla sperimentazione e dalla tradizione. Forse, sono un po’ sbilanciato e tendo di più alla tradizione, comunque. In sostanza, però, adoro prendere il meglio della tradizione e della sperimentazione alla volta.
– Il prossimo evento fotografico a cui fai parte?
– Preparo una serie di mostre individuali fra Roma, Los Angeles e New York. Il lavoro è già avviato, sono a un buon punto con la produzione delle immagini.
– Se hai bisogno di modelli e modelle, lancia il tuo casting fotografico.
– Sono in cerca di ragazze e donne da diciotto a quarantacinque anni che abbiano un violto espressivo e un fisico armonioso. Ringrazio in anticipo ogni singola partecipante a questo casting.
Ringraziamo Morgan Capasso per il tempo che ci ha dedicato. Auguriamo a lui tanta creatività e nuovi successi internazionali. Invitiamo i nostri lettori a conoscere la sua arte in web cliccando “Dreaming Blue di Morgan Capasso”
Olga Matsyna