Le parole sono pietre, ciottoli di strada, grandine, gocce copiose, fiocchi di neve, piume, voci di dentro, pulsioni del cuore, ma anche, moto grezzo di quella rabbia non ancora passata al setaccio dell’anima, che ne filtra l’essenza e, ne fa solo sofferte parole d’amore. Parole impalpabili, leggere, raffinatissime come zucchero a velo, pronte per essere spolverate con delicatezza sulle ore, più amare e su quelle più in ombra, della nostra vita fugace. “In principium erat verbum”,“le parole sono pietre”, per dirla alla maniera di Carlo Levi, abbiamo imparato che la parola può creare, celebrare, affascinare, immortalare, può anche ferire, lacerare, deprimere, distruggere, uccidere; ma può ben donare gioia, respiro, consolazione. Ci sono infinite parole gentili che, regalano sorrisi e, permettono il riaffiorare di quella luce che ci portiamo nell’anima. E’ la “Poesia della vita”, per questo è nei versi degli idealisti e dei poeti che si celano consolazione e spiritualità ed è proprio, “la consolazione che li fa audaci!”.“Quando siamo consolati, ci viene da fare tanto bene, sempre, invece quando c’è la desolazione c’è la voglia di chiudersi in noi stessi e non fare nulla”: l’ha predicato – di recente – Papa Francesco, è:“La consolazione ti spinge avanti, al servizio della società, alle persone” e, così è per il poeta che si affranca dalla sua “solitudine intellettuale” e inizia a inviare i suoi messaggi al mondo. E’ quello che è successo a Jonathan Giustini, da una vita immerso fra note e versi, tra armonie e dissonanze, fra letterati e dicitori sopraffini; alle soglie della maturità, l’incedere di quelle parole covate dentro, di “quella poesia muta” custodita gelosamente nell’anima, la spinta ha la forza del magma incandescente, caldo e inarrestabile che si è riversato – oramai – senza sosta, portando fuori tanti versi, figli del pathos, che hanno cercato ogni via, con una forza portentosa fino all’inattesa copiosa eruzione, inarrestabile e pura. Bellissima serata, quella orchestrata e diretta dall’autore stesso, presso la galleria In Cinque di Monica Cecchini, in via Madonna ai Monti a Roma. Un momento intenso e di alto spessore culturale, un mix di versi e musiche di valore assoluto. Il pubblico appositamente convenuto ben oltre la capienza del locale, ha manifestato grande consenso. La serata per Jonathan Giustini ha fatto registrare il “sould out“ del salotto culturale che è la galleria monticiana. “Riserva Idrica” (Controluna Lepisma Floema 2024) è la prima antologia poetica di Jonathan Giustini, romano giornalista di lungo corso, voce di tante radio storiche della capitale. Giustini si è occupato di musica, si è nutrito di letteratura e di cinema, ora ha dato alle stampe un bel libro, che è una raccolta di versi meditati e, custoditi dentro per anni: “Una riserva idrica quando non piove da tempo. Una riserva idrica che tutti noi abbiamo dentro. Una riserva idrica che la incontri improvvisa all’uscita di una galleria. Una riserva idrica dove l’acqua è sempre più fresca anche di quella dei torrenti. Una riserva idrica che non ne puoi misurare l’orizzonte. Una raccolta di scritti poetici sulle risorse inaspettate della vita. In profondità come in superficie. Tra un padre e un figlio da sempre in cammino”.
“La poesia è come un sillabario/ può restare chiuso per tutta una stagione/ e in un’altra aprirsi/ come un fiore.”/ Il libro di Jonathan è un po’ un affaccio sull’anima, proprio in quell’attimo in cui fa ritorno primavera. Aria frizzantina e venti nuovi, come quando a sciogliersi è la neve e, così, ecco il ritorno di una folata di parole, parole che sembravano quasi dimenticate, una ventata e, ricompaiono a sciami. Un sussulto nel sentirle ri-pronunciate, un ritorno al sogno alla voglia d’immaginare al di là della realtà; per cercare una nuova alba, un nuovo scintillante inizio, un nuovo cammino di speranza, una vita oltre la vita. “Il grillo s’apparecchia davanti alla luna/in questa notte bellissima e profumata./ Ha un vestito d’argento stirato di fresco./Lui è riuscito a superare il confine che divide il destino./ Una musica dolce, accompagna magistralmente ogni storia, delicate le atmosfere e le sottolineature di ogni accordo, di ogni melodia per piano e sax, del dialogo musicale dei maestri Andrea Terrinoni e Nicola Alesini. “Le lacrime mi affogano i colori/ e la paura si dilata nel pomeriggio./Sono le sbarre che ho costruito,/non proteggono, non impediscono,/piuttosto affettano il cielo… E’ un incedere di parole pregne, cariche di tanti significati, parole palpitanti, versi che muovono le coscienze. “Lettera ai prepotenti… se avessi vent’anni tornerei/accanto a te che ai cento anni/e un volto da bambina eterno/dove la vita si è fermata./ Arrivano piano le note e la voce del maestro Ernesto Bassignano che, emoziona e non poco, nell’interpretare una delle canzoni antimilitaristi più struggenti di Luigi Tenco: “Padroni della terra”, opera di quell’intellettuale d’oltralpe che è stato Boris Vian, letteratura nata nel tempo degli chansonnier francesi, del Tabou club nella Rue Dauphine. Composizioni musicali nate dall’influenza dei poeti della rarefazione della parola, dagli emetici e dalle loro prese di posizione contro la guerra. “Cessate di uccidere i morti. Non gridate più se li volete ancora udire, se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba lieta ove passa l’uomo”(1) “Le chiamano riserve idriche./Ieri sera un passero nella tua stanza/smuove la piccola vergogna/e la dolcezza mi invade/come la rondine caduta/ che affida con occhi lunghi e sottili/la sua vita nelle mie mani/ cha la riportano al volo…/ Prende corpo da un pianissimo l
a voce struggente e passionale della fisarmonica del maestro Marcello Fiorini, echeggiano suoni che appartengono al “rumore della memoria”, alle piazze di Buenos Aires e ai suoi drammi. Fonte d’ispirazione e di dolore inspiegabile, dove tutto si trasforma in poesia, in speranza. in sussulti di pura musica contemporanea, ben lontana da ogni antico cliché. L’emozione a volte gioca qualche piccolo tiro mancino, capita anche a un grande professionista della “voce”, però anche se a calare è il tono, è il cuore che pulsa più forte. “Teresa tu che da un quartiere provieni/ dove si confondono le razze, i mestieri/ e dove forse anche l’amore non avrebbe età./ Ed ecco un leggiadro pizzicare di chitarre, non solo suoni nati dalla “simpatia” delle corde tese, ma mani, voci e unisoni di cuori a rispolverare Roma, a narrare d’oceani e di mari e, del sogno antico dell’oltrepassare l’orizzonte. Figli della filosofia dei Canta-cronache sono Piero Brega filosofo, architetto e Orietta Orengo musicista, unione perfetta di voci e di stati d’animo eredi di Sergio Liberovici e Michele Straniero, ispirati e veri, popolari e eruditi compagni letterari di Italo Calvino, Gianni Rodari e Umberto Eco. Insomma, che dire? Solo poesia ? No . Solo musica ? No. Solo teatro ? No. Solo umanità vera, sola, disorientata a volte smarrita, umanità che si ritrova e si riconosce in versi e canti che scuotono e riempiono l’anima. Rs 11/12/2024