Si vota a favore della separazione delle carriere in magistratura. Ma l’iter di approvazione definitivo della legge è ancora lungo. Ce ne saranno ancora molte di polemiche e di rimbalzi che per il cronista è il caso di tenersi in vigile attesa.
Qualora si arrivasse a conclusione dell’iter sarebbe la vittoria finale di venticinque anni di lotta da parte di una formazione politica interconnessa se non trasversale. La questione in campo consiste se l’organo giudicante deve considerarsi nello stesso genere e specie di quello inquirente, se i pubblici ministeri debbano essere equiparati ai giudici che invece debbono mostrare sempre terzietà.
La questione non è tanto di sostanza, ma di diritto. In definitiva pare sia solo l’uno per cento dei magistrati che passano da pubblici accusatori a giudici o viceversa. Il problema riguarda nel considerare le due categorie professionali come distanti, come distante deve essere il momento dell’accusa e il momento del giudizio finale. Si tratterebbe di un elemento di garanzia per l’avvocato di difesa per cui il suo avversario e contendente, il pubblico ministero, non sia un collega del giudice con quale instaurare un rapporto del tutto diverso di quanto può sostenere la difesa.
Se le ragioni sono così chiare, evidenti e palmari, non si capisce perché il costituente abbia previsto una figura in questo modo, per altro grande eccezione nel panorama di organizzazione della giustizia. La ragione, secondo quanto detto da rappresentanti della magistratura, consiste nel fatto che chi accusa deve costruire quelle modalità di giudizio giuridico tali da dover essere parte del bagaglio culturale e operativo di ogni rappresentante della magistratura. Fare un passaggio come pubblico accusatore per un magistrato consisterebbe in una occasione per formare la propria professionalità di giurista e viceversa. Si tratterebbe di passaggi che in sede giudiziale nulla attengono alla serenità nell’emissione della sentenza.
Si risponde che la dimensione di separatezza delle figure, aventi ciascuna un proprio ordine e sede di verifica del proprio operato, consiste nella garanzia completa delle figure di accusa e difesa, da una parte. Ma soprattutto di indipendenza totale – anche suggestiva: per dimostrazione di estraneità dalle parti – di chi emette la sentenza.
IN queste diatriba ventennale non si capisce il motivo di tanta resistenza da parte dell’organo giudicante. Le toghe hanno annunciato manifestazioni di protesta. Una difesa strenua che fa pensare alla vera incrinatura di una prerogativa di alterità dimensionale a cui non si vuole rinunciare. Come dire, noi magistrati siamo un’altra cosa, vogliamo essere considerate e siamo diversi dalla classe politica abile e solita a dividersi per poi ricongiungersi, ma anche dalla strumentalità dell’avvocatura. Chi giudica lo fa in termini di diritto e sempre in termini di legge formula pubbliche accuse. Non c’è in tutto questo alcuna animosità. Per tanto, essere considerati nella loro univoca estraneità dal resto di chi gioca con le leggi, sia per difendere i suoi assistiti che per votare nuove norme.
Una discussione infinita che arriva alla votazione con una maggioranza più ampia di quella espressa dal governo in Parlamento. Centosettantaquattro sì e novantadue no. Si è astenuta Italia Viva. Si va per le fasi successive.
Ma va detto che la netta separazione delle figure in Italia è arrivata solo attraverso la Riforma Vassalli arrivata il 1989. Prima l’amministrazione della giustizia in Italia somigliava assai più a quella del Codice Rocco che ad un paese veramente democratico. Siamo sempre quelli che hanno inventato la Santa Inquisizione, ma questo ci porterebbe troppo lontano.