“De Luca e Zaia?” “Du’ facce de’ la stessa medaja”. La Roma del popolo di una volta liquiderebbe in breve la questione. La Roma di Palazzo Chigi invece deve trattare il problema con ben altra attenzione. Ci va di mezzo la permanenza della prima inquilina dell’edificio governativo.
Tutti sanno che i presidenti Vincenzo De Luca e Luca Zaia hanno da tempo aperto un contenzioso col governo in carica per farsi riformare quella clausola vincola il ruolo di governatore a due mandati. Lo stesso vale per i sindaci.
La democrazia consiste in un sistema di regole in grado di assicurare che in una società chi governa sia scelto dalla maggioranza dei cittadini. In una democrazia non sono consentiti momenti super erogativi in cui il massimo rappresentante della cosa pubblica possa agire col puro esercizio del suo intelletto. C’è sempre una collegialità nel sistema di raggiungimento delle decisioni.
Non fanno eccezione a questa regola la Campania e il Veneto. Non si capiscono allora i veri presupposti coi quali i governatori De Luca e Zaia vogliano ricandidarsi dopo il secondo mandato. (Zaia ne ha fatti già più di due ma transeat).
La ragionevolezza per cui non si consente a un presidente eletto di ripresentare la terza volta la sua candidatura consiste nel fatto che essere governatori non può diventare un mestiere. Così non lo è fare il sindaco o altre cariche di massima dirigenza derivate da elezione. Un presidente che si candidasse nuovamente per la terza volta significherebbe un livello impari nel confronto con un candidato alternativo. Chi ha governato conosce tutto di un’area vasta, vizi, segreti, favori e conoscenza di coloro che sono usciti beneficati da quel precedente corso amministrativo.
Impedire la terza candidatura ha il significato di garantire il necessario ricambio consistente nella garanzia di un ricambio da parte di chi comanda una struttura amministrativa per elezione.
Non capire questo presupposto, cercare di giubilarlo con motivazioni giuridichesi significa avere un concetto basso della democrazia ma anche che si ama troppo il ruolo conseguito, tanto da rifiutarsi di lasciarlo ad un fedele erede.
Ma il caso, evidentemente paradigmatico per avere contezza del livello di crisi nella nostra democrazia, assurge a vette grottesche essendo la questione riproposta a centrodestra come a centrosinistra. I due schieramenti si somigliano molto tanto da non riuscire a differenziarsi neanche nella predica dei loro leader.
Ma a ben guardare il caso è spinoso per i rispettivi schieramenti perché in entrambe i casi va a esaltare uno scontro da tempo in atto all’interno delle due formazioni. Zaia vede Giorgia Meloni un’avversaria perché la presidente vorrebbe mettere uno di Fratelli d’Italia come rispondenza al successo elettorale che la vede primo partito anche in Veneto. De Luca ha contro tutto il suo partito perché si è mosso sempre in modo poco concertato e al momento giusto non ha risparmiato qualche bordata nei suoi famosi sermoni Social.
In tal senso sono due facce della stessa medaglia che sta per “problema” per la democrazia organizzata. Ma proprio perché ci si ritrova a discutere su qualcosa per la quale trenta anni fa non si poneva minimamente il dibattito, ci si accorge come la democrazia sia in crisi. La sua cifra consiste nell’incapacità di autoregolare un sistema di elezione in grado di garantire il ricambio. E se non c’è garanzia del ricambio non c’è democrazia. Anche se la società va a votare non significa che il pluralismo delle scelte possibili sia garantito. In effetti è sempre meno garantito perché è sempre meno reale. E anche la migliore perduranza dei presidenti del Consiglio, una trovata tendenza alla stabilità non è per forza segno di una buona tendenza.
Fa eco, infatti, Giorgia Meloni che, stavolta legittimamente, vuole essere il Presidente del Consiglio durato più a lungo nella Storia d’Italia. E sarà, infatti, un buon argomento per i due contraenti in Veneto e Campania per consentire un accomodamento. Con buona pace della democrazia.