A quasi quarantottore dalla ricorrenza dell’8 maggio, giornata dedicata interamente e meritatamente alla Mamma – metabolizzati auguri parentali e contagio celebrativo a espansione rapida – diventa svago amorevole (e non solo amatoriale) una cronaca in sintesi della festa sublimata dal punto nave della stessa. Questa volta, non sarà in un sonetto anacronistico o in un’avulsa divagazione il tentativo di abbracciare la ragione di fondo, che ha animato la domenica trascorsa- il giorno lungo tutto l’amore di mamma – ma sarà il coglierne aspetti essenziali e qualificanti, quale, per esempio, la vitale quintessenza del nostro status filius, assoggettato all’irrompere esibito, anonimo e firmato, di creatività emozionale in coppia con sindrome sentimentale post partum in ogni dove. Per mio conto nessuna critica faziosa, bensì aggraziato interesse e versatile curiosità. Per mia mano, lo spirito giusto per esprimere un’accezione comune – al contempo naturale, facilmente comprensibile e di cui esserne consapevoli – con impiego esclusivo “ad maternam”.
Per quanto attiene il tam tam profuso dalla rete, quest’ultima palesa la prognosi di amore assoluto e reciproco madre-figli, dissipato ogni secondo della giornata in un download gratuito a tutto spiano il quale, a sua volta, focalizza un particolare ingranaggio di spersonalizzazione che non sembra affatto accendere l’attenzione dei più.
A questo punto, diventa legittimo chiedersi: come etichettare l’effetto, prodotto da una simile esperienza di carattere prettamente intimo, convogliata – dall’istituzione, del 1958, bollata dal Senato – negli eventi della vita pubblica? Alla fine, quale riuscita, potrebbe esserne il frutto spontaneo – della condensata raccolta di un numero incalcolabile di dati, setacciati e suddivisi, tra proposizioni, musica, immagini, foto e video – la brutta copia di una filosofia da camera? No. Potrebbe essere il ritratto a forti tinte di un’irriverente analisi di costume e società? Nemmeno.
Lasciamo pure in sospeso l’argomento, senza per questo storcere il naso e torniamo all’unica cosa certa: Nella nostra cultura, il mito della Madre assume la dignità e la forza della teoria e noi siamo una nazione di amanti della Madre per l’appoggio che le forniamo aderendo a quella teoria. (James Hillman, Il codice dell’anima, 2009, p. 94).
Non si ha ancora una soluzione ai quesiti precedenti, che nuove domande sorgono spontanee. Così last but not least: che cos’è l’amore materno? Possiamo darne una qualche definizione chiara, esplicita? Di primo acchito, e nella circostanza, diventa difficile formulare una risposta equilibrata in quanto questa incede tra razionalità e emozione conducendo chiunque ad un conflitto tra conoscenza e coscienza.
In un secondo momento, probabilmente si. Magari, affidando il tutto all’esperienze vissute in qualità di madre e/o ricordando quello che è stato il proprio essere bambino, la risposta di reazione per la sincrona e soppesata considerazione sull’amore materno, sarà: E’ Natura. E’ Entità. L’amore materno, non si riferisce solo all’esistente, ma addirittura a ciò che non c’è. Forse, ma con quest’ultimo concetto si sta peccando di eccesso di disinibizione idealistica.
Necessita correggere il tiro ed essere pragmatici quel tanto che basta di modo che, instillando ai presenti, aspetti della realtà alle disposizioni d’animo, questi, così congiunti, accompagnino verso la linearità di una massima esistenziale: la vera essenza dell’amore materno concerne nell’arte di essere madre, ovvero curare la crescita del bambino e volere che questo si separi da lei. A conferma di tutto ciò viene in soccorso con i suoi studi, Erich Pinchas Fromm – psicoanalista e sociologo tedesco – che nel suo saggio Psicoanalisi della società contemporanea (1955), afferma: Il rapporto tra madre e figlio è paradossale e, per un senso, tragico. Richiede il più intenso amore da parte della madre, e tuttavia questo stesso amore deve aiutare il figlio a staccarsi dalla madre e a diventare indipendente. Tratte da L’arte di amare, del 1956, sono anche queste altre sue parole: L’amore materno è incondizionato. (…) L’amore materno è beatitudine, pace, non ha bisogno di essere conquistato né di essere meritato.
Però c’è un lato negativo alla qualità incondizionata di questo amore materno. Non solo non ha bisogno di essere meritato, ma non può essere conquistato, suscitato, controllato. Se c’è, è come una benedizione; se non c’è, è come se tutta la sua bellezza fosse uscita dalla vita, e non c’è niente ch’io possa fare per crearlo.
Detto questo, non abbandoniamoci al passato e preferiamogli le suggestioni amorevoli e premurose della nostra era. Perfino Il Paradiso si stende ai piedi delle madri (Maometto, in Abdullah Al-Mamun Suhrawardy, I detti del Profeta, 1905). Dalla teoria si passa alla pratica. Qualcuno potrebbe domandarsene il senso con un’appropriata osservazione. Altri potrebbero affermare che l’Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti – Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 1975. (La scelta casuale della frase echeggia dura, fra critiche e giudizi pro e contro proprio nel giorno, in cui il governo ha posto la fiducia sulle Unioni Civili alla Camera – private, tempo addietro, della famosa stepchild adoption che apriva all’utero in affitto e a tutte le possibili anomalie del provvedimento di legge – ormai al rush finale e che dovrebbero avere consenso definitivo tra domani e giovedì. Al contempo, la stessa frase stride di dolore ai fatti di cronaca legati alle morti di parto e alle interruzioni di gravidanza – legge n. 194 del 1978 e obiezione di coscienza: in Italia ben 7 ginecologi su 10 si rifiutano di effettuare interventi di aborto volontario per motivi etici o morali).
Ammettiamolo pure senza timore, Se le donne hanno una debolezza, è che mettono i figli innanzi a se stesse (Erica Jong, Serenissima, 1987). Ed è il bivio figli-impiego davanti a cui spesso si trova anche la donnamamma, lo scotto salato da pagare quando si parla di lavoro: i dati Eurostat ci posizionano all’ultimo posto nell’Ue a 13 con il 54% del tasso di attività, con il differenziale più alto fra maschi e femmine,-20%. Il 73,8% degli inattivi, sostanzialmente tre su quattro, quindi, è di sesso femminile. Ma la percentuale appare ancora più sconcertante se si pensa che i due terzi di questi sono mamme (Redazione ANSA, 8 maggio 2016, ore 00.14).
Ed ecco che si fa avanti la figura della mamma 2.0: è un flusso costante in uscita che tutela e protegge, spesso barcamenandosi in una gincana tra casa e lavoro, colleghi e famiglia, specializzata in rampolli ed errori (quest’ultimi – ahimè! – non appartengono solo alle scelte tra pannolini ecologici, lavabili o usa e getta ma si articolano tra i più complessi periodi di vita dei virgulti, che vanno dallo svezzamento e i primi passi, passando tra attività scolastica, sportiva e ludica – non senza lividi, cicatrici, lacrime, sorrisi, premi e
medaglie – alla prima volta in discoteca – con opzione a scelta dal menù a tendina tra obbligo e libertà di coscienza per tatuaggi, battesimo, comunione, cresima, viaggi e primi amori – fino all’agognato diploma – annessa patente – e laurea universitaria, affrontando le conseguenze aberranti della presa d’atto dell’altissimo divario etico-morale generazionale – antenati vs progenia!).
In questo frangente, diventa una benedizione ciò che ha detto Papa Francesco al termine della preghiera di domenica del Regina Coeli: Oggi in tanti Paesi si celebra la festa della mamma; ricordiamo con gratitudine e affetto tutte le mamme, affidandole a Maria, la mamma di Gesù. (Adnkronos – Cronaca – 08/05/2016 12:42).
Mamme che lottano senza paura contro qualcosa più grande di loro, nonostante sappiano di non poter vincere, come Anna Lisa, nata a Livorno, pittrice e insegnante di educazione artistica, con la passione dell’arte e che viveva per la famiglia (Il Tirreno, edizione Piombino-Elba, 10 maggio 2016); come la fiera e coraggiosa Felicia Bartolotta, la prima donna in Italia a costituirsi Parte Civile, insieme al figlio Giovanni, in un processo di mafia, mamma di Peppino Impastato il giornalista di Cinisi – che da Radio Aut denunciava gli intrecci tra mafia e politica – ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo, nello stesso giorno in cui le Brigate Rosse restituivano agli italiani il corpo di Aldo Moro (wikipedia); come Francesca, avvocato e mamma felice, emigrata a Copenaghen, in Danimarca, dove si può conciliare lavoro e famiglia senza stress e che in Italia non tornerebbe mai più (http://m.repubblica.it, 3 maggio 2016); come Becky, Serafina e Michela che quotidianamente affrontano e non si arrendono alle malattie dei loro figli, mamme speciali, forti e pazienti, che raccontano le loro storie nel portale della Fondazione Telethon che cita a caratteri cubitali “FESTA DELLA MAMMA” Di mamma ce n’è una sola, di mamme straordinarie ce ne sono tante (http://www.telethon.it) basta pensare a quelle che riescono a diventarlo dopo aver sconfitto il cancro.
Come si fa a dire grazie a queste mamme, donne sorprendenti a volte fragili ma perseveranti, che senza perdersi d’animo, a 360° e per ben 365 giorni all’anno, ci scortano tra ostacoli e felicità della vita? La risposta non c’è. O meglio non c’è nulla di così grande che può equiparare il loro essere madri ed è forse per questo che spesso quelle benevoli attenzioni irritano e esasperano, riconosciamo di non essere in grado di ricambiare quell’incommensurabile amore. Alzi la mano chi non ha mai detto da bambino, magari lasciato per un paio d’ore in affido a parenti o amici per qualche commissione o altro della propria mamma, in seguito a un imprevisto e al suo prevedibile ritardo, rivolto alla persona di turno, che siano stati essi nonni, zii, fratelli/sorelle maggiori, la fatidica frase “ti voglio bene…ma la mamma è la mamma!”.
Nel frattempo anche se sta sparendo la cosiddetta maternità nucleare, madre-e-bambino, il suo mito non fa una piega, saldamente incollato al seno archetipico. Si ama la propria madre quasi senza saperlo, senza comprenderlo, perché è naturale come vivere; e avvertiamo la profondità delle radici di tale amore solo al momento della separazione finale (Guy de Maupassant, Forte come la morte, 1889). Seguitiamo a confidare nella Mamma mentre intorno a noi assistiamo ad un incessante cambiamento: asili nido, famiglie allargate, padri che cambiano i pannolini, bambini di strada che fanno da genitori ai fratellini più piccoli, ragazze adolescenti già madri di due o tre figli, donne di quarantacinque anni madri per la prima volta. Davanti ai nostri occhi si verifica una trasformazione globale che colpisce qualsiasi settore: andamento demografico, economia, definizioni giuridiche di maternità e paternità, concepimento, adozioni, medicine, diagnosi, libri sull’educazione dei bambini. Il mito della madre è li, fermo, statico e imperterrito disposto a resistere alla generale mutazione, in quanto rappresentante di quella immutabile condizione di potere sulla vita di ognuno di noi. Perché dietro ogni donna che partorisce, dietro ogni donna che accudisce un bambino c’è un sistema di credenze modellato sulla carica affettiva: insegnamenti, prescrizioni, schemi di pensiero e comportamento rappresentano lo scambio di identificazioni inconsapevole e naturale, pertanto, in molte circostanze, ai figli non occorre ricevere determinate indicazioni su come pensare o cosa fare perché già portatori di scelte e azioni, ignare vittime della loro conformità latente, della loro simbiosi involontaria.
Comunque sia, non inganniamoci, del resto quello che fa una mamma per 100 figli non lo fanno 100 figli per una sola mamma. Niente algebra e non c’entra l’aritmetica. La proporzione di cui sopra ha poco a che fare con la matematica. Più che un proverbio, è un detto a cui si sono date varie declinazioni – a secondo di luoghi, di persone e di utilizzo – risalente alla notte dei tempi, giunto fino ai giorni nostri, di cui in molti se ne contendono la paternità (adottiamo una voce più forte delle altre, la quale attribuisce i natali alla gens napoletana). Il prospetto pianificato all’inizio, un po’ di righe fa, si avvia a conclusione dell’obiettivo prefissato con i dati e tutti i suoi limiti, con gli sforzi e le convinzioni da indagare, con le tesi e la ricerca da approfondire, ma con ogni cosa al posto giusto e pronta a seguire il suo corso, aprendo non solo il cuore ma anche lo scompartimento del pensiero all’aspetto della riflessione e della testimonianza ogni qualvolta una madre che nutre il figlio, dà immediatamente se stessa, il proprio corpo come cibo per i suoi figli, i quali senza ciò non sarebbero vivi. E questo è amore (Lev Tolstoj, Della vita, 1888).
Maria Anna Chimenti