Su una sperduta isola dei mari del Nord, brucia l’ inferno della coppia Edgar- Alice, giunta ormai alla soglie delle nozze delle nozze d’argento: entrambi sostanzialmente dei falliti, lui vecchio capitano mai riuscito a diventare maggiore, lei attrice dalla carriera precocemente interrotta al momento di sposarsi. E’ la scena di “Danza macabra“, testo teatrale del 1901 tra i piu’ significativi di August Strindberg ( 1849- 1912), il drammaturgo svedese che, insieme al norvegese Ibsen, esprime senz’altro le vette piu’ alte del teatro scandinavo: in scena al “Quirino“, per la regìa del “mostro sacro” Luca Ronconi, sino al 22 maggio.
Nella traduzione e adattamento di Roberto Alonge, e con una scenografia ( di Marco Rossi) al tempo stesso semplice ma molto curata, che riproduce adeguatamente i due diversi ambienti dell’azione ( una torre sperduta tra le brume nordiche, e l’ ampio salone d’una casa sul mare), e l’ alternarsi di giorno e notte, questa pièce si conferma suggestivamente come passibile di due diverse letture. Edgar e Alice ( due straordinari Giorgio Ferrara e Adriana Asti, marito e moglie anche nella vita) si tormentano a vicenda, in un penoso quanto macabro stillicidio di battute velenose e richiami alla morte: ecco il “senso letterale” ( per dirla col padre Dante) della piece. Ma dopo che è entrato in scena il terzo personaggio, il timido amico di famiglia Kurt, forse amante di Alice (Giovanni Crippa), si capisce che il loro essere lui, Edgar, dispotico e vampirico, e lei la tipica dominatrice d’ uomini, fiera Padrona ( quasi satanica), non corrisponde ad altro che a due ruoli: ottimamente interpretati da due attori mancati, individui profondamente narcisisti la cui vanità, e irresistibile impulso ad entrare in scena, è azionata proprio dall’arrivo di Kurt. Il quale, terzo incomodo, batterà in ritirata non appena si sarà reso conto di non avere in realtà alcun potere nei confronti di quella coppia, d’ essere stato, anzi, nient’ altro che il loro strumento, che gli ha permesso di entrare in scena come desideravano. Alla fine, vedremo i due, Edgar e Alice, tornare tranquillamente nel loro abituale inferno, o meglio, in un cordiale purgatorio: mettendosi addirittura a parlare delle vicine nozze d’argento.
“Banalità del male” (o, piu’ modestamente, del disagio) interconiugale, insomma: ecco l’ essenza d’ un testo dalla forte introspezione psicologica, le cui influenze,a guardar bene, si ritrovano in vari altri successivi, da “Esuli”, di Joyce” (1917) a “L’uomo, la bestia e la virtù’ ” di Pirandello (1919) . Si continua nel grigiore, leggermente mitigato rispetto alle prinme scene del dramma, d’una stabile incomprensione matrimoniale.
Straordinari gli interpreti; mentre non possiamo non notare la forte, singolare somiglianza fisica tra Giorgio/Edgar e il Lev Tolstoj degli ultimi anni, anche lui arroccato tra le brume, nella sua Jasnaja Poljana. Chissà che Strindberg, scrivendo la pièce, non abbia pensato anche appunto all’ autore di “Guerra e pace”, da anni notoriamente tormentato dai dissidi con la pur amata moglie Sofia Behrs. Ma mentre il capitano di “Danza macabra” alla fine riprendeva tranquillamente la sua danza, in realtà assai poco macabra, il vecchio Tolstoj, nove anni dopo questo dramma di Strindberg, insieme al fido medico personale avrebbe deciso di chiudere una volta per tutte il dissidio con Sofia e con i figli: partendo, in un gelido novembre russo, per il suo ultimo viaggio, verso quella mediatica morte nella sperduta stazioncina ferroviaria di Astapovo.
di Fabrizio Federici