Il Novecento è il secolo del crollo delle certezze, dell’esaurimento di ogni residuo positivistico, del crollo della metafisica, della relatività di ogni cosa. E’una fortissima crisi ad aprire il secolo, che trova la sua matrice più estrema nella rivoluzione scientifica e nella conseguente reazione al positivismo: da una parte la scoperta della radioattività che diede un forte impulso alla fisica moderna, allo studio dell’atomo e alla fissione nucleare, dall’altra la scoperta della relatività di Eistein che fa collassare nettamente il metodo galileiano su cui si erano erette le fondamenta del positivismo. Gli ambiti di ricerca sono estesi: la psiche è acquisita al settore scientifico, grazie agli studi di Sigmund Freud.
La riflessione più immediata è sulla capacità da parte della scienza di cambiare la storia, i costumi, la letteratura; basti pensare a quando Galileo nel 600 con il suo “Dialogo sopra i Massimi Sistemi” sconvolse l’intero sistema tolemaico tradizionale, accostando i cieli alla terra, segnalando l’imperfezione celeste che si riversò nel fiorire della stravolgente letteratura barocca. Allo stesso modo questa ennesima rivoluzione scientifica porrà fine alla cultura positivistica, che fino al 1880 era la cultura ufficiale della borghesia, di quanti avevano realizzato l’unità italiana, ponendosi in dichiarata rottura con essa.
I motivi di avversione e delusione nei confronti delle teorie positivistiche sono diversi:
– il rigido determinismo che aveva sottratto grande spazio alla volontà e libertà umane;
– le leggi fisiche e razionali non erano più in grado di gestire il complesso mondo psichico-intellettivo dell’uomo di cui la totalità psichica era ridotta alle sole facoltà razionali;
– l’avvilimento della fantasia e dell’immaginazione.
L’attacco più forte al positivismo venne dal rafforzarsi delle teorie irrazionaliste come l’intuizionismo e il contingentismo di Bergson : la sua dottrina retta da una concezione vitalistica favorisce uno slancio verso l’intuizione; la ricerca delle forse occulte dell’uomo e la rivalutazione dei suoi moti inconsci, esse giunsero all’esaltazione della volontà di potenza e al nietzschiano mito del superuomo.
Dunque le scoperte scientifiche, l’affermarsi delle teorie irrazionalistiche, i mutamenti in ambito sociale decostruiscono la figura dell’intellettuale, immettendolo in una fortissima crisi. L’intellettuale non è più portavoce di valori eterni ed universali, di ideali ottocenteschi ( l’amore, la patria, l’unità , i tormenti civili), ma è svuotato, deve ritrovare se stesso, deve ridare un senso.
Lo stesso Decadentismo ( termine dispregiativo usato dalla borghesia avversa per far riferimento alla temperie culturale che caratterizza il passaggio tra 800 e 900) pone l’intuizione in alternativa all’eccessiva logica; il mistero, l’occulto, l’inconscio sono mondi nuovi da esplorare e strumenti di liberazione dell’immaginazione umana; il dubbio è il punto di partenza per ogni ricerca e si oppone a verità assolute che in realtà si erano rivelate inafferrabili; la parola simbolica è espressione di significati nascosti e di una visione del mondo non definita.
Da questa matrice decadentistica si stemperano a raggiera i differenti filoni letterari e filosofici, movimenti crepuscolari del ripiegamento malinconico dell’io e futuristici delle rivolte vitalistiche del superuomo ele diverse reazioni poetiche.
Il romanzo è, infatti, il genere in cui più si specchia la crisi del 900. Il critico Lukàcs ne fa di questa consapevolezza una teoria, “ La teoria del romanzo ”: << nella modernità il romanzo rappresenta la condizione orfana dell’individuo, che si aggira in una realtà non più illuminata dalla luce delle stelle e che anzi soffre la lontananza da qualsiasi cielo stellato>>. Ciò vuol dire che l’individuo vive sulla sua pelle la crisi delle certezze, la perdita della concezione lineare del tempo, cioè dove tutto aveva un inizio ed una fine, dove c’è un senso finale, dove c’è l’attesa di un senso finale.
Quando si parla di romanzo del 900 si parla di “ disordine ” di un mondo disgregato, del non-senso dell’esistenza che si riversano nel romanzo dove non si arriverà mai a ricostruire il senso perduto (del mondo). Tuttavia nonostante questa netta consapevolezza, compito etico del romanzo è perseguire il senso: questa è la peculiare caratteristica paradossale che è costitutiva del genere romanzo.
Il romanziere deve muoversi in una prospettiva unitaria, cercando di delineare un disegno globalizzante laddove in realtà sussistono solo frammenti di un universo disgregato e plurale. Il romanzo si muove, dunque, tra l’aspirazione di ricostruire una totalità (il senso) e l’oggettività di una perdita irrimediabile di senso; tuttavia il romanzo appare come l’unica forma capace di salvare il mondo orfano di ogni principio unitario.
In questa realtà frammentaria e priva di senso l’individuo è protagonista della scena nonostante il suo enorme senso di inadeguatezza (v. di Mattia Pascal; Zeno Cosini). Al contrario di ciò che accadeva nell’arte tradizionale dove tutto è basato sulla totalità, sul senso, dove uomini e dei convivevano insieme e gli uomini potevano riconoscersi in essi.
Silvia Buffo