La storia della letteratura italiana non è fatta solo di grandi classici. Molte volte ci si dimentica di quegli autori che con le loro storie minori hanno raccontato aspetti dell’esistenza che possono dirsi “laterali”. Sono le scritture di provincia. Storie per nulla artefatte, a volte grottesche ma in cambio autentiche. La provincia intesa come una “esperienza memorabile”, e Generoso Picone, importante critico contemporaneo, pensò bene di segnalarcelo già dieci anni fa in uno dei suoi preziosi saggi.
Ad investire queste narrazioni è un vero e proprio “contro-gusto”: e non dovrà sorprende di rintracciarlo finanche nei testi che appartengono al Canone della nostra storia letteraria in cui si è radicato tra la fine del XIX e il XX secolo. Più in particolare, questa dissonante passione per la provincia si è sposata in maniera legittima con la controcultura tra gli anni Sessanta e Ottanta, lungo quel ventennio che vede esaurire definitivamente gli strascichi del neorealismo, divampare per poi spegnersi le sperimentazioni neoavanguardistiche, e indebolirsi la passione ideologica.
Il “disimpegno” degli ultimi decenni amplia il margine d’azione narrativo che dal centro porta verso la periferia e la provincia. Ed è in questo passaggio che vengono raccontate storie di ribellione e libertà, anche piccole e marginali, ma rappresentative di un mondo del tutto popolato dai “non-protagonisti”.
Dall’America all’Italia
Ne sanno qualcosa Jack Kerouac e Allen Ginsberg, i maestri del “beat”, che possiamo definire “provinciali” per quei racconti talvolta ossessionati dalla tradizione e dalle consuetudini dell’America profonda; quei ritratti caleidoscopici e trasognati, fedeli al gusto della letteratura da strada, ai diari di bordo, a memorie underground. E’ un “genere” letterario che superando l’Atlantico si ritrova anche in Italia, nella narrativa degli anni Ottanta. Generazioni di “spostati”, devastati da una noia e una malinconia da fare invidia a Baudelaire, animano le pagine di scrittori come Pier Vittorio Tondelli.
Ma c’è di più nella letteratura di provincia, generata da una “topografia reale e interiore” insieme, un viaggio verso le zone periferiche di sé, qualcosa di strettamente legato al passato e alle radici dei nostri scrittori, come emerge nel Tondelli di “Camere separate”, dissacrante e per nulla ordinaria storia d’amore dove a prevalere sono gli occhi del provinciale più che del ribelle. Lo scrittore dopo aver girovagato a lungo per l’Europa, dopo essere fuggito dalle sue origini, eccolo che ritorna a casa per poter ritrovare i luoghi della sua infanzia e della sua travagliata giovinezza. Questo desiderato ritorno si racconterà attraverso immagini di semplicità e dolcezza, come il ritratto della madre e delle sorelle che si preparano per la messa, una scena che sembrerebbe stonare con suo spirito emaciante e ribelle, ma che in realtà custodisce perfettamente la doppia indole da “uomo di provincia”: il rifiuto e l’identificazione, sentimenti contrastanti che emergono ora in modo conscio ora inconsciamente nelle pagine dello scrittore di Correggio. E cos’è, infatti, la provincia se non adorazione e odio?
I grandi provinciali
Provando a spingerci ancora più indietro, in quelli che, tecnicamente in ambito critico, potrebbero definirsi come “ipotesti” di questo inconsueto gusto scrittorio, si può facilmente notare che non è solo la controcultura del ventennio culminato negli anni Ottanta la tappa obbligata di questo percorso. Si possono rintracciare i germi di questo controgusto anche nel Canone italiano fra XIX e XX secolo: nelle realistiche rappresentazioni di Verga, o in un più disinibito Manzoni che con i Promessi Sposi – mette per la prima volta al centro del romanzo italiano l’amore e le disavventure di due contadini di cui parleremo, in seguito, a proposito degli aspetti divertenti della provincia italiana, così lontani questi dalle descrizioni veriste che nel loro approccio netto, coerente e senza fronzoli alla Storia, ritraggono la provincia come un nitido dipinto impressionista, quasi alla maniera dei “macchiaioli”. Verga e Capuana ritraggono la Sicilia, Grazia Deledda la sua Sardegna, Giuseppe Di Giacomo e Matilde Serao la loro Napoli. Questi narratori si nascondono dietro l’arma dell’ “obiettività”, cercando di eclissarsi, di annullare la prima persona, per far parlare le storie e i personaggi che raccontano.
E’ come se i Veristi volessero dissimulare il loro profondo attaccamento alla terra e le lontane memorie di vita, ma dietro questa imparzialità non riescono a nascondere la nostalgia della provincia da cui sono partiti. E’ con la negazione dell’autobiografismo o di un qualsiasi approccio “estetico” all’opera letteraria che favoriscono una narrativa impersonale e lontana da ogni sentimentalismo.
Se la provincia dei Veristi è solenne e impeccabile, avrà un’inquadratura del tutto differente nella nostra letteratura contemporanea, dove sarà ritratta nei suoi aspetti più crudi e morbosi, allontanandosi di tanto dal “distacco” della resa verista.
Corrado Alvaro, scrittore contemporaneo, ne è il primissimo esempio con i suoi aspri ritratti di pastori calabresi, i “non protagonisti” di “Gente di Aspromonte”, una raccolta di racconti che non è un tentativo di romanzo antropologico o etnografico ma un sentimento “crudo” che fa i conti con le proprie radici.
Ed ancora ne sanno qualcosa altri grandi autori dello stesso periodo come, Anna Maria Ortese- autrice surrealista di quel capolavoro struggente che è “Il mare non bagna Napoli” (il titolo dice già tanto, quasi tutto)- e Federigo Tozzi talento castrato dalla sua morte prematura, più che dalla mastodontica figura del padre da cui si sviluppa la sua esigenza di narrazione. Nella sua opera è come se l’esperienza dolorosa della provincia si incuneasse nel topos kafkiano della castrazione paterna, e la marginalità si spiegasse anche con gli strumenti della indagine psicanalitica.
Lo struggimento di Ortese e gli “occhi cattivi” di Tozzi
E’ interessante, di volta in volta, cogliere la differenza narrativa che intercorre fra questi autori contemporanei a proposito della loro provincia: “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese è una ricerca che trascende il letterario per farsi “cordone ombellicale” con la periferia, un viaggio dalle zone esterne ed estreme della società fino a quelle della propria combattuta personalità. Provincia e periferia sono, infatti, mondi adiacenti, vasi comunicanti, ognuno con il suo radicalismo e le sue estremità e il Mezzogiorno della Ortese non è espressione dello “standard” poetico napoletano, del sole che illumina paesaggi spogli ma tutto sommato vivibili e godibili. Niente di tutto ciò: la provincia è sofferenza, devastante malinconia, come si evince dalla storia della più autentica tra i suoi “antiprotagonisti”, una bambina cieca che desiderava tanto degli occhiali. La Ortese ci racconta con tanta dolcezza che “un giorno ne aveva provati un paio in un ottico di via Roma, scoprendo così la bellezza del mondo”. La bambina può finalmente guardarsi intorno, vedeva i vecchietti bianchi camminare adagio nelle vie della città, specchiandosi in tutti i colori del mondo. Desiderava tanto quegli occhiali- racconta ancora la Ortese- e finalmente le furono comprati ma leggiamo cosa avviene una volta indossati: “Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia”. Il mondo adesso le fa un’impressione orribile, così diverso dall’ottico di via Roma: foglie di cavolo, rifiuti dei mercati, uomini deformi buttati nella miseria e nella rassegnazione, desolazione. Alla vista della realtà la bambina sta male fino a vomitare dal trauma, tanto male da dover rinunciare al suo nuovo paio di occhiali. Quell’oggetto tanto desiderato è la fine di ogni desiderio, ripone il velo che ricopriva la realtà, la miopia del sogno che rendeva le cose tanto desiderabili e perfino belle. Dalla dolcezza del sogno la scrittrice romana arriva a renderci l’amarezza della vita in un tono quasi fatalistico, dando respiro alla sua matrice surrealista, lavorando sul confine tra cieca realtà e sogno. D’altronde, in una prospettiva estetica novecentesca, l’uno non può sussistere senza l’altro. E’ con questa doppia visione che la bambina alla ricerca degli occhiali guarda il mondo che la circonda. Il problema legato alla “vista” ricorre ancora nella nostra letteratura contemporanea con Federigo Tozzi e ad esso lo scrittore fa risalire tutte le sue ossessioni di provinciale. Colpito da una malattia agli occhi che lo costrinse a vivere al buio per molto tempo, una volta guarito, Tozzi trovò grandi difficoltà a uscire dalla sua camera e a riprendere a guardare la vita. Da qui si sviluppa il profondo disagio del romanzo “Con gli occhi chiusi”, la difficoltà di osservare una realtà dominata dall’inganno e dal dolore, sopraffatta dagli istinti negativi, dal male. Lo scrittore senese è ossessionato dagli sguardi cattivi della gente e il suo realismo non ha nulla di cinico o impersonale perché lo scrittore partecipa totalmente ai fallimenti dei suoi personaggi.
La provincia divertente di Manzoni
Ma se in Tozzi, o nella Ortese, prevale quasi un’anestesia verso la malevolenza della provincia, nella letteratura italiana non mancano luoghi e pagine in cui essa appare ironica, ludica e addirittura dissacrante. Andando a ritroso possiamo scorgerla sotto questi aspetti nel nostro maggiore scrittore romantico, Alessandro Manzoni, il cui merito più grande è di aver fatto delle storia di due contadini, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, antiprotagonisti per eccellenza, un grande classico. La provincia manzoniana non è solo il celeberrimo “addio ai monti”, uno slancio sentimentalistico verso la propria terra pronunciato dalla più dolce ragazza della nostra letteratura, Lucia, ma è l’azione che vivifica ironicamente l’intero tessuto narrativo – come nella divertentissima “notte degli imbrogli”. La provincia manzoniana è colorata: dal pretaccio bonario e la sua perpetua, dai due piccioncini lombardi e da quegli smargiassi dei bravi; è una provincia in movimento, agrodolce, benché il dramma della condizione vissuta dai protagonisti sia serio e accessibile.
Provincia bestiale, fantastica e intricata: da Pasolini, a Calvino, a Gadda.
La provincia nei suoi svariati aspetti non è ancora esaurita, ulteriori differenze di prospettiva ce ne sono ancora molte, tante quante sono gli autori che si sono accostati al “tema”. Questa volta l’inversione di marcia, in questo campionario di esempi narrativi, spetta a Pier Paolo Pasolini, con suo romanzo “Una vita violenta”. Ragazzi del sottoproletariato romano durante il dopoguerra, sfidano irresponsabilmente il mondo, smaniosi di brutalità, bestialità ed eccesso. Ed è quasi un automatismo associare la periferia all’eccesso. Un mondo quotidiano, quello di Pasolini, fatto di bravate inutili, marcato dalla trasgressione, dalla sovversione verso le regole di una società a cui i ragazzi sentono di non appartenere. Come avviene oggi nei vicoli napoletani di Scampia, una concentrazione di poesia e bestialità. E’ questa spietata dicotomia che intercorre in tutta la letteratura di provincia ma, accanto alla bestialità può incalzare addirittura la fantasia qualora la provincia appaia tanto scollegata dal mondo e i suoi paesaggi così vuoti ed esili da sembrare quasi fiabeschi. La traccia di quest’itinerario ci condurrà per “I sentieri di nidi di ragno” di Italo Calvino.
Qui perfino la storia della Resistenza italiana, in un realismo che ha del deformante, sembra filtrare attraverso toni e sprazzi provinciali così ovattati da sfociare nel fantastico. L’autore ligure, con il suo caratteraccio, sempre fuori dalle righe, racconta la Resistenza con gli occhi di Pin, ragazzetto un po’ scemotto che ruba la pistola ad un soldato tedesco (andato a letto con la sorella, mezza prostituta), e la nasconde in un posto “favolososamente” chiamato “sentieri dei nidi di ragno”. Un luogo che non è altro se non l’eco di uno stato folle di marginale isolamento dal quale si stempera affinatamente il fantastico.
E’in questa ultima tappa, che si potrebbe definire, di “esagerazione” narrativa che si possono collocare i toni eccentrici e stranianti di Carlo Emilio Gadda. Uno stato di irrisolvibile confusione muove la sua poetica del periferico, trionfante in “Quer Pasticciaccio Brutto de via Merulana”. Lo stravagante Gadda racconta come un “microcosmo”, circoscritto ad una semplice via romana possa divenire un mastodontico caos, un confusionario intrico invalicabile. Assistiamo ad un bombardamento sociale delle ipocrisie, i miti fasulli: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica aspettativa femminile, la virilità ostentata e arrogante, la famiglia che – dietro all’apparente solidità – nasconde sopraffazione. Già prima dell’inondazione di Internet- come molti critici hanno evidenziato- Gadda aveva imparato ad intendere il mondo come una rete, infinita e incontrollabile, che può arrivare a comprendere tutti gli aspetti della realtà stabilendo tra di essi connessioni sottili ma fortissime. Questa realtà tremendamente complessa è tutta compressa in “via Merulana” e ci mette davanti all’irrisolvibilità delle cose, all’insuperabile confusione delle periferie.
LA PROVINCIA A SIMBOLO DEL SUD
Vale la pena di fare un’ultima riflessione, forse a carattere sentimentale, prima di chiudere questo insolito percorso letterario, da intendersi quasi come un“dirottamento” dalla storia letteraria tradizionale. Se ragioniamo in termini allegorici oltre che topografici, possiamo riscontrare quanto l’idea di provincia, di periferia, di lontananza dal centro possa coincidere con la simbolica istanza di un “Sud”. Il centro e i centri del mondo non sono mai stati a Sud ma infondo c’è sempre un Sud a cui si fa ritorno, esigenza che freme evidentissima nei racconti dell’Apromonte del calabrese Alvaro. Spesso è un’esigenza di rifugio e isolamento a cui siamo indotti dalle ragioni più incredibili: certo è che il Sud sia in netta opposizione con il Nord del mondo, simbolo indiscutibile dell’ambizione a realizzarsi, a plasmarsi un’identità produttiva, acquisita e distaccata dalle proprie origini; si tratta di una vera e propria bipolarità nell’identificazione, molti sono i sociologi contemporanei a ribadirlo. La letteratura si è mossa nel riscatto del Sud, della provincia, del periferico per risultare sempre meno autoreferenziale, una letteratura come testimonianza, come memoria di vita autentica: “la bambina che voleva gli occhiali” simbolo commovente di un Sud amaro altro non è che la resa della realtà, netta e disincantata, quella dei vicoli napoletani, con cui le coscienze sociali devono prima o poi fare i conti.
Vi è sempre una provincia a cui si fa ritorno, muovendoci nella profondità di una topografia allegorica interiorizzata dagli animi di grandi scrittori: molti di loro hanno fatto la loro fortuna editoriale proprio al di fuori dei posti natii, ma la loro penna scivola sempre lì, nei suoi echi pallidi e malinconici o talvolta caldi ed irruenti e a volte sembra quasi che non ci sia niente di più poetico e di più aulico.
Silvia Buffo