Nel settembre del 1967 l’autorevole settimanale letterario, The Times Literary Supplement, decide di dedicare un numero al legame della letteratura con le altre discipline coinvolgendo Raymond Queneau a proposito del rapporto con la scienza, Umberto Eco con la sociologia, Lucien Goldmann con l’ideologia, Roland Barthes che contribuisce a proposito di Scienza contro letteratura e Calvino a cui era stato chiesto di scrivere su Letteratura e filosofia.
In questo testo Calvino delinea la sua concezione sul rapporto che intercorre tra le due discipline, che egli definisce in termini di lotta, istituendo inoltre una differenza tra l’attività dello scrittore e quella del filosofo. A proposito di quest’ultima utilizza un’efficace metafora, quella degli scacchi. L’illustrazione di questa differenza che intercorre tra le due attività culturali è espressa con efficace chiarezza: «lo sguardo dei filosofi attraversa l’opacità del mondo, ne cancella lo spessore carnoso, riduce la varietà dell’esistente a una ragnatela di relazioni tra concetti generali, fissa le regole per cui un numero finito di pedine muovendosi su una scacchiera esaurisce un numero forse infinito di combinazioni. Arrivano gli scrittori e agli astratti pezzi degli scacchi sostituiscono re, regine, cavalli, torri con un nome, una forma determinata, un insieme d’attributi reali o equini, al posto della scacchiera distendono campi di battaglia polverosi o mari in burrasca; ecco le regole del gioco buttate all’aria, ecco un ordine diverso da quello dei filosofi che si lascia a mano a mano scoprire».
In questa descrizione si riversa, più dettagliatamente, la differenza fra l’approccio filosofico al mondo e quello della letteratura. Mentre la filosofia si muove verso la sintesi, verso la deduzione di parametri, la letteratura si proietta verso il particolare, il dettaglio, la contingenza delle cose. C’è, dunque, un enorme scarto, ma entrambe si sfidano nella conquista della verità, dando luogo ad un’opposizione che non deve risolversi, deve garantire, al contrario, la sopravvivenza della “sclerosi delle parole”, ossia la non risolvibilità del loro scontro. Il rapporto filosofia-letteratura è pertanto «una guerra in cui i due contendenti non devono mai perdersi di vista ma nemmeno mantenere rapporti troppo ravvicinati» affinché letteratura e filosofia non diventino l’una la mimesi dell’altra. Ciò si è verificato nell’ormai superato teatro di Pirandello o nella Nausée di Sartre, dove la filosofia ha voluto indossare l’abito della letteratura forzandolo un po’. Di conseguenza la letteratura esistenzialista non ha avuto seguito poiché non è riuscita a darsi un rigore letterario. Questo rigore si può perseguire in un solo modo e può attuarsi solo quando lo scrittore scrive prima che il filosofo lo interpreti. Secondo Calvino il rigore letterario fa da modello al rigore filosofico.
Ciò deve verificarsi anche qualora lo scrittore e il filosofo siano la stessa persona: Dostoevskij, Kafka e Beckett costituiscono i massimi esempi in cui l’autorità dello scrittore coincide con l’autorità del pensatore, e questa coincidenza si effettua nella maniera più elevata. Il merito di queste figure sta nel fatto che riescono a regalare un approccio filosofico anche a chi non ha un’attitudine verso questa disciplina, muovendosi nel “terreno tradizionale dell’etica”, che equilibra e restituisce familiarità alla sensibilità ricettiva; un terreno sempre di più all’insegna della fine del dogmatismo: «se è infatti vero che i filosofi dopo aver interpretato il mondo devono cambiarlo, è altrettanto vero che se smettono per un momento d’interpretarlo non riescono a cambiare più nulla. Il dogmatismo ha perso terreno». Etica e fine del dogmatismo sono, dunque, le qualificazioni del rapporto che intercorre tra filosofia e letteratura. Tuttavia l’orientamento della letteratura verso la filosofia non dipende esclusivamente da questo, bensì da un atteggiamento eclettico da parte di scrittori di stampo tradizionale che traggono ispirazione da letture filosofiche aggiornate senza mai però compromettere la loro concezione del mondo. L’entità con cui si instaurano delle riflessioni in seguito all’influenza della filosofia in letteratura dipende dall’indole stessa dello scrittore ed è una caratteristica molto singolare. Nel caso di Joyce «lo scrittore penetra sotto la crosta delle cose: Joyce proiettava su una spiaggia squallida le domande teologiche e ontologiche imparate a scuola e lontane dalle preoccupazioni attuali, ma ogni cosa che toccava, scarpe sfondate, uova di pesci, ciottoli, apparivano sconvolti fin nella loro ultima sostanza».
Quella di Joyce è, infatti, una letteratura filosofica basata su un’analisi stratigrafica della realtà che porta a mettere in discussione non solo il mondo ma l’essenza stessa dell’opera letteraria, questo è uno dei rischi dell’incontro fra letteratura e filosofia, e la funzione della scrittura arriva ad assumere una connotazione distruttiva. Negli anni Sessanta si è, infatti, sviluppata una linea di una filosofia interna all’atto dello scrivere: in Francia il gruppo di «Tel Quel» con Philippe Sollers in testa si concentra su un’ontologia del linguaggio, della scrittura, del «libro», il cui processore è stato Mallarmé, in Italia la funzione distruttiva della scrittura sembra essere al centro della ricerca ed in Germania, la difficoltà di scrivere è il tema principale della letteratura. In questi tre Paesi la letteratura si presenta come «un’attività speculativa austera e impassibile, lontana dai gridi della tragedia come dagli estri della felicità: non evoca altri colori e altre immagini che il bianco delle pagine e l’allineamento delle righe nere». Inoltre per una più completa analisi Calvino nel rapporto filosofia-letteratura, che egli definisce come un “matrimonio a letti separati”, include anche la relazione con la scienza, identificando in tal modo un “ménage à trois”.
La scienza si trova ad affrontare problemi non dissimili da quelli della letteratura, deve ad esempio, stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convenzioni linguistiche. Per Calvino scienza, letteratura e filosofia devono conservare l’obiettivo di mettersi in crisi vicendevolmente, fare una guerra a tre, sempre per difendersi dal rischio del dogmatismo che non può e non deve sussistere nella cultura. Per la sua costante precisione analitica Calvino richiama le origini del rapporto letteratura-filosofia, che a differenza di quello con la religione, da Eschilo a Dostoevskij, stabilitosi sotto il segno della tragedia, il rapporto con la filosofia si fa esplicito per la prima volta nella commedia di Aristofane. L’elemento della commedia è fondamentale poiché indica le connotazioni proprie del rapporto tra filosofia e letteratura, ossia comicità, ironia, humor. Questi elementi affondano le radici in una vecchia verità che è quella dei contes philosophiques, che altro non sono che allegre vendette sulla filosofia attraverso l’immaginazione letteraria. La loro eredità è stata destinata ai nuovi degustatori della filosofia come stimolo all’immaginazione: Queneau, Borges, Arno Schimdt, accomunati dalla caratteristica di non rendere espliciti i riferimenti letterari.
Questi scrittori coltivano con passione il mondo dell’erudizione filosofica senza pero prenderla molto sul serio, la loro letteratura nasce da questo. da una letteratura come riproduzione, al contrario essa deve fornire un’immagine cosmica recuperando i livelli di conoscenza che lo sviluppo tecnologico ha messo in gioco, senza pretendere che essa risponda ad un giudizio morale, ma dando rilevanza alla sua incidenza nella storia degli uomini e del suo insegnamento metastorico nella vita stessa. Questo intenso affondo nell’attività degli scrittori nella filosofia, per poi ritrarsi, dà luogo alla loro letteratura. A proposito Calvino riporta l’esempio di «Gadda, diviso tra l’aspirazione a scrivere ogni volta una Storia Naturale del genere umano e il furore che lo congestiona ogni volta al punto di fargli interrompere i suoi libri a metà».
di Silvia Buffo