Natura e storia del romanzo è una conferenza tenutasi per la prima volta a San Remo il 24 marzo 1958 e ripetuta poi in varie città italiane, in questo saggio Calvino si è particolarmente soffermato su una Letteratura della violenza.
In coerenza con le grandi problematiche affrontate nel Novecento, anche Calvino affronta la questione romanzo dando luogo ad un confronto fra l’antichità, la modernità e la contemporaneità. Questa riflessione è espressa nel paragrafo secondo del saggio, in cui Calvino illustra la distinzione che intercorre tra arte contemporanea e arte classica: «nell’antichità alle origini della poesia l’epos era stato la prima consacrazione del fare umano. Per propiziare il successo alle loro imprese, gli uomini celebrarono il primo vincitore delle difficoltà, l’eroe: non dio ma uomo, sia pur imparentato con gli dei: uomo in quanto il suo destino è sulla terra, è un percorso terrestre irto di ostacoli. L’epica moderna non conosce più dei: l’uomo è solo e ha di fronte la natura e la storia.
E se a questo punto viene facile dire che natura e storia sono gli dèi del mondo moderno, rinnovate incarnazioni delle antiche divinità possiamo subito ribattere che questa divinizzazione si incontra più facilmente nelle pagine dei filosofi che in quelle degli scrittori». La letteratura contemporanea è, dunque, orfana di quella totalità; è sfinita dalla nostalgia per gli dei ed assume drammatica coscienza di sé, della sua condizione orfana, ritrovandosi in una dimensione adulta e sviluppando, di conseguenza, nuove esigenze e indirizzi narrativi. Alla visione pessimistica, incombente nella coscienza della società, radicata nell’epoca delle guerre mondiali, la letteratura ha reagito con l’avanzare di una narrativa dell’infanzia, con l’avanzare di protagonisti ragazzi. Questa narrativa è considerata come un morbido decadentismo, un rifiuto a considerare le responsabilità dell’uomo adulto, soprattutto in seguito al ruolo della psicologia che ha riversato nel raccontare dei bambini e dei ragazzi la parte più aurorale e più fragile del mondo interiore dell’uomo contemporaneo.
Nel Novecento il mito epico dell’infanzia, non si esaurisce in quest’unica connotazione del rifiuto dell’età adulta ma ne assume differenti, tra cui il ripiegarsi anche in un senso di sacrificio. Nel caso di Hemingway il mondo si presenta con un volto feroce, e l’infanzia appare come una cruda iniziazione agli occhi meravigliati e impavidi del ragazzo Nick, il protagonista autobiografico dei primi racconti dello scrittore statunitense. «Il padre di Nick, medico, dovendo assistere una partoriente al Campo indiano, la opera con un temperino da pesca, mentre il marito non sopportando la vista della sofferenza, si sgozza. Nick ha visto tutto: il suo noviziato è un allattamento a sopportare la brutalità del mondo». L’eroe di Hemingway vorrebbe identificarsi con le azioni che compie «pescare, cacciare, far saltare un ponte, far bene l’amore», ma è circondato costantemente da qualcosa a cui vuole sfuggire: il senso di vanità del tutto, la dispersione, la sconfitta, la morte. Emblematico tra i 49 racconti di Hemingway è Il gran fiume dai due cuori: un resoconto minuzioso di tutto ciò che fa un uomo quando va a pescare da solo, un racconto molto triste in cui spiccano un profondissimo senso di oppressione e di angoscia, di cui la natura serena e le tranquille operazioni della pesca non fanno altro che amplificarne l’eco. Lo scenario psicologico su cui si muovono gli eroi di Hemingway è quello sanguinoso della prima guerra mondiale o della guerra civile spagnola. La realtà del Novecento è la realtà della guerra, dell’esplosione della barbarie ed è presente negli eroi hemingwayani anche quando vanno pacificamente a pesca. Ancora una volta come in Kafka, in Beckett, in Proust la letteratura è uno specchio della realtà ed «è sciocco pregiudizio e ipocrisia far colpa alla letteratura se il quadro che essa rappresenta, di come vanno le cose del mondo, non è conforme ai nostri desideri.
Delle cose del mondo la letteratura che vale ci da coscienza: ci fa esplodere sotto gli occhi la carica morale dei fatti perché noi reagiamo». Ancora una volta Calvino osserva nella letteratura la facoltà di agire sulla coscienza umana, poiché egli, in qualità di uomo del Novecento, è combattuto dalla consapevolezza che la letteratura faccia i conti col mondo, e che il disordine e la negatività di esso si riversi al suo interno e si traduca però in una carica morale dei fatti. Questa fortissima percezione di un mondo che si riversa nella letteratura, è connessa ad un’ulteriore problematica, ossia quella dell’incidenza, se non la prevaricazione, del mondo degli oggetti sull’individuo.
Silvia Buffo