La più importante festa della Cristianità accese la prima violenta controversia tra i fedeli delle comunità d’Oriente e d’Occidente
Il prossimo 8 aprile celebreremo la S.Pasqua. Sarà domenica, naturalmente, e – altrettanto naturalmente – era noto già con largo anticipo che quest’anno avremmo avuto una Pasqua media, né alta né bassa, in base ad una fluttuazione che scorre di anno in anno poiché la Pasqua è una festa mobile per eccellenza; infatti, è legata al calendario lunare ebraico di derivazione babilonese e da essa dipende la fissazione di tutte le altre feste mobili cristiane; ma c’è di più: la data esatta della Pasqua l’avremmo potuta conoscere addirittura con molti anni di anticipo, in base a precise tavole precompilate che tengono conto delle fasi lunari ed hanno come elementi costitutivi l’epatta e la lettera domenicale. Tuttavia non è stato sempre così, perché nei primi tempi della Cristianità la datazione della Pasqua non era univoca, tanto che intorno ad essa scoppiò, in maniera accesa, la prima grave controversia tra le diverse comunità di fedeli, protrattasi dal II all’VIII secolo.
Il primo a parlarci di questo vero e proprio casus belli in seno all’ecumene cristiano fu Melitone di Sardi, uno scrittore che conosciamo per citazione indiretta da altri autori, in quanto non ci è giunta la sua opera, De Pascha, nella quale accennava alla polemica che già prima dell’anno 165 aveva cominciato a travagliare – e dividere – le comunità cristiane d’Oriente dal resto dei fedeli: inizialmente solo riguardo al fatto se la Pasqua fosse o no da celebrare al giorno 14° del mese ebraico di nisan, per poi passare a coinvolgere anche altri aspetti di cui diremo nel seguito. Per capire la ratio di tale diatriba occorre soffermarci sull’origine e sul significato della Pasqua già in seno alla comunità ebraica e di come tale celebrazione, consacrata e rafforzata ai nostri occhi di Cristiani dal sacrificio di Gesù Cristo, fosse stata recepita in ambito protocristiano; occorrerà, quindi, un piccolo excursus storico, avendo peraltro l’avvertenza di ricordare che la materia è tanto delicata quanto complessa, i pareri degli studiosi moderni talora divergono addirittura sui momenti storici fondamentali, per cui riassumere tutta la questione in poche righe non è impresa agevole, a meno di ricorrere a qualche necessaria semplificazione, come faremo in questa sede.
Innanzitutto, brevemente, il nome. Il termine latino pascha, da cui per derivazione diretta abbiamo l’italiano Pasqua, si rifà al greco pàscha pasca che a sua volta deriva dall’ebraico pésah “passaggio”, poiché sta a ricordare il passaggio dell’Angelo Sterminatore (Esodo 12) che, come decima piaga inflitta all’Egitto dal Dio di Israele, uccise i primogeniti degli Egizi “passando”, cioè “saltando, evitando”, le case degli Ebrei: questi, infatti, si erano premurati di spalmare la porta della propria casa col sangue dell’agnello sacrificato e mangiato, per l’appunto, la sera del 14° giorno del mese di nisan, “il mese delle spighe in maturazione”, che in base al calendario ebraico (regolato sulle fasi della luna) corrispondeva all’incirca al nostro marzo.
Da allora, nel ricordo di tale “passaggio”, la Pasqua, festa fissa nel rito ebraico, venne sempre celebrata in quel giorno di plenilunio, il 14° di nisan, a prescindere dal suo cadere, o meno, di domenica. A tale uso, detto quartodecimano, non intesero tuttavia uniformarsi i primi Cristiani i quali avevano derivato dagli Ebrei la celebrazione della Pasqua, ma con l’importante differenza di legarla alla Resurrezione di Nostro Signore, vero Agnus Dei (Pascha resurrectionis), piuttosto che alla sua Passione, cioè crocifissione e morte (Pascha crucifictionis); per questo motivo, oltre che nel desiderio di staccarsi in maniera significativa dal rito ebraico, presero a celebrare la Pasqua sempre e soltanto di domenica (poiché di domenica era risorto Gesù Cristo), ma ad una data sempre diversa da un anno all’altro. Persistettero invece nell’uso quartodecimano alcune comunità cristiane d’Oriente, dapprima la sola Diocesi di Laodicea e poi tutta l’Asia Proconsolare romana (Siria, Cilicia, Mesopotamia); il contrasto con il resto dell’ecumene cristiano, dapprima svoltosi in toni pacati, si infiammò con il pontificato di S.Vittore I (189-199) che, pur ricorrendo alla scomunica, non riuscì tuttavia a dissuadere i Quartodecimani dal loro computo per stabilire la data della Pasqua.
Nel corso del III secolo, in Occidente si cercò di dirimere la controversia calcolando dei “cicli pasquali” che consentissero di giungere ad una determinazione univoca del giorno della Pasqua, ma fossero anche conformi all’uso domenicale di celebrazione della stessa; ogni ciclo era della durata di un numero costante di anni, al termine dei quali la Pasqua capitava di nuovo alla stessa data del primo anno di detto ciclo. Tuttavia, persistendo insanabili divergenze di principio, non fu possibile risolvere la diatriba che vedeva contrapposte alcune comunità cristiane d’Oriente, che davano risalto alla Passione di Cristo, rispetto alle restanti comunità che guardavano piuttosto al momento della Resurrezione. Tale contrasto implicava un diverso giorno di celebrazione della Pasqua, problema aggravato dai differenti metodi di calcolo legati alle lunazioni e ad altri fattori; per voler semplificare possiamo ricondurre i termini cronologici della polemica al seguente fondamentale interrogativo: se si dovesse cioè celebrare la Pasqua al giorno del calendario giuliano (allora in vigore nell’Impero Romano) che corrispondeva all’ebraico 14 di nisan (secondo l’uso quartodecimano in uso in parte dell’Oriente), collegando così un calendario solare ad uno lunare (con tutti gli inevitabili slittamenti di giorno) e indipendentemente dal giorno della settimana in cui sarebbe capitata la Pasqua; oppure, non si dovesse piuttosto celebrare la Pasqua sempre e solamente di domenica (come voluto dal resto della comunità cristiana), ma ogni anno in un giorno diverso.
Attraverso molteplici contrasti tra le Chiese e successive elaborazioni di metodi di calcolo – dal laterculus di Augustale alla Supputatio Romana vetus ed al ciclo pasquale di Dionigi il Piccolo, etc. – si giunse infine alla seguente risoluzione finale cui, gradatamente, si uniformarono tutte le comunità: la S.Pasqua doveva celebrarsi nella domenica successiva al 14° di nisan del calendario ebraico, in un intervallo dal 22 marzo al 25 aprile, con la fondamentale avvertenza che se in un certo anno il 14° di nisan capitava di domenica, la Pasqua era da celebrarsi alla domenica successiva, per evitare la coincidenza con la Pasqua ebraica la quale, come si è visto, veniva celebrata a ricordo di un differente momento religioso.
Tutta la complessa controversia, qui esposta in termini cronologici necessariamente stringati, improntò di sé la vita della Cristianità dalla seconda metà del II sec. fino verso la fine dell’VIII e costituì la prima accesa polemica tra comunità di fedeli; fu risolta per gradi e la soluzione venne man mano accettata a partire dall’Oriente Cristiano fin nelle lontane Isole Britanniche, le quali furono le ultime ad adeguarsi: si raggiunse così, tra le Chiese cristiane, l’unanime concordia circa il criterio di datazione della Pasqua. Tale unità venne di nuovo, e definitivamente, infranta nel 1582, con l’adozione da parte della Chiesa di Roma del Calendario Gregoriano che, invece, non venne recepito dalla Chiesa d’Oriente. Ancora oggi – pur se i singoli Stati dell’Oriente ortodosso hanno via via adottato il Calendario Gregoriano – la Chiesa d’Oriente continua a scandire il proprio anno liturgico sul Calendario Giuliano di romana memoria. Da ciò deriva la differente datazione della Pasqua che persiste tra l’Oriente ortodosso e la Chiesa di Roma.