Sono Laura Urbani e sto vivendo in questo momento la mia seconda esperienza di mamma lavoratrice in quanto sto utilizzando l’orario ridotto dopo la nascita del mio secondo bambino ( che anzi è, più esattamente, una bambina).
Al mio rientro a lavoro dopo un periodo di maternità e breve congedo parentale da me usufruito, ero certa (e questo ho già potuto verificarlo dopo la nascita del primo figlio) che il mestiere di donna- lavoratrice in azienda sarebbe andato a scontrarsi con quello di donna –mamma, dato il tempo limitato di ogni giorno e date le difficoltà che normalmente e quotidianamente si incontrano al rientro in ufficio.
Parlo ovviamente del posto di lavoro da riconquistare ogni giorno, della fetta di impegni di cui riappropriarsi e della stima dei colleghi che faticosamente bisogna ricostruire di volta in volta senza mai tirarsi indietro. Non è stato semplice re-introdursi dopo un po’ di tempo, anche perché spesso le persone, anche quelle più disponibili, e quei colleghi preposti alle spiegazioni e alla formazione, dopo tanto tempo sono impegnati nel proprio ambito lavorativo e nei propri fini da raggiungere; pertanto chiedere continuamente ai colleghi informazioni di aggiornamento e novità nel campo personale di lavoro risulta scomodo e a volte imbarazzante.
Devo dire al riguardo che, pur riconoscendo che la normativa vigente nel nostro Paese è tra le migliori del mondo soprattutto in termini di periodi di tempo concessi alla partoriente prima e dopo l’evento, non altrettanto può dirsi in merito alle strutture di supporto, come ad esempio gli asili e gli asili nido, i cui costi gravano in maniera pesante sulle famiglie.
Infatti non essendo in grado le strutture pubbliche di far fronte alla domanda si è costretti a ricorrere alle strutture private che richiedono un impegno economico non indifferente e quindi si riducono le possibilità per la donna di accedere al lavoro. La donna è costretta in molti casi, per motivi di bilancio familiare, a rinunciare ad un impiego dovendo custodire in prima persona i propri bambini specialmente se non può avvalersi di stutture sostitutive di tipo familiare come nonni o altri parenti.
Proprio per questi motivi, in tempi normali, al di là della grave crisi che stiamo attualmente vivendo,le donne lavoratrici in Italia sono sempre state in numero percentuamente minore rispetto ad altri paesi aventi uno sviluppo economico e sociale simile al nostro.
In questi ultimi infatti il problema viene risolto con un massiccio intervento dello Stato o delle istituzioni pubbliche che si occupano dell’infanzia in età prescolare, e ciò, sia direttamente che in maniera indiretta,finanziando cioè le srutture private, ovvero con l’intervento delle aziende che approntano asili e piccoli centri di controllo sanitario dei bambini riducendo notevolmente i problemi dei genitori.
Da semplice spettatrice posso osservare che in Italia da tempo si discute di queste soluzioni ma sembra assai difficile se non impossibile arrivare ad una conclusione positiva.
Alla luce di quello che ho detto, ritengo che l’art. 18 non debba essere comunque alterato, anche perché questo vulnus rischierebbe di aprire la strada ad una revisione delle tutele previste per la mamma lavoratrice. A riguardo è sufficiente pensare che molto spesso donne come lavoratrici precarie, che rimangono incinta, non vedano rinnovato il proprio contratto.
Concludo dicendo che, nonostante le giornate altalenanti in cui ci sentiamo forti e nelle quali più fragili, sono sicura che riusciremo a migliorare la nostra posizione, perché i nostri figli hanno bisogno di credere in noi e non dobbiamo consentire di rinunciare alle nostre occupazioni fuori di casa e al nostro diritto di lavorare, nonostante essere mamme richieda molte forze e impegno da parte nostra.