Cordialità, mi disse, e invece non rimase più nulla sotto quella cappa di una nebbia che segnava già le nostre distanze, quel mattino.
Io chiusi gli occhi e non trovai neppure la forza di guardarla per l’ultima volta. Indossava un pullover nero, lo ricordo bene, un pullover nero e una sciarpa con piccoli motivi floreali, di un bel cotone pettinato. Ricordo le sue ballerine consunte, consunte come l’amore che rimaneva tra noi.
Alzai le spalle e feci per andarmene. Lei, fredda e distante, lasciò che tutto accadesse senza dire nulla, senza prendere parte all’ultimo atto.
A malincuore le diedi le spalle e, nel mio incedere pesante, ragionavo già su ciò che era stato. Solo la notte prima, il suo viso corrusco mi illuminava la vita, e oggi? Oggi non avevo neppure il coraggio di oppormi alle sue scelte.
Mai una volta che avessi afferrato il coraggio a piene mani e avessi deciso per la mia persona. D’altronde il coraggio non era mai stato il mio punto di forza, specie in quel rapporto malato, in quel vivere distanti.
Un passo dopo l’altro, come un diaframma a click multipli, ravvicinati, e vedevo la vita scorrermi affianco come un gioco di parole. Solo che le mie erano mute.
Nella mente avevo ben nitida l’immagine di lei, della prima volta che la vidi sorridere. I suoi occhi come fosse un campo sativo, e io ci avevo seminato tutto me stesso.
Dei suoi occhi, le mie solitudini.
Ora vo errando senza meta, senza la ragione. Se qualcuno dovesse incontrarmi, mi offra, se può, un tozzo di pane.
L’avete vista? Qualcuno di voi l’ha scorta? Io sono la salvezza della mia anima, della sua già da tempo smarrita, di ogni sua virtù recondita e del suo viso rorido -pur se il sole batte diuturno-. Io sono dannazione e pace. Delle mie membra stanche, del mio cuore arido, fatene ciò che più vi garba.
Paolo Congedo
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