La saliva calda passava a fiotti, fra le nostre labbra, e i rivoli che si creavano facevano gola ad entrambi, quella notte fredda e ventilata, vicino la riva di quel mare e la sua schiuma dettata dal frangersi dell’onda.
Nel suo viso rilassato, specie in quegli istanti, io ci leggevo la passione e l’amore che, pur senza continuità, mi aveva donato per anni, con la stessa intensità del primo giorno.
Un po’ mi spiaceva pensare al mio ego sempre avaro di stimoli.
Poi le poggiai la mano sul ventre pronunciato e io adoravo sentire che fra quelle pieghe c’era la vita, adoravo sentirmi trapassare l’animo, adoravo guardarla mentre si spogliava in disparte, al buio, come avesse timore di mostrarsi in quelle forme abbondanti di ciccia e amore. Ogni volta mi avvicinavo e, baciandole le labbra, la aiutavo a svestirsi, ad annullare la distanza fra noi e il suo corpo morbido.
La prima volta che facemmo l’amore con la luce accesa, fu per merito della tv. Il tubo catodico fu testimone inconsapevole del nostro amplesso e io la vidi completa. Solo allora lei capì che il suo limite era stato superato, che gradivo la donna carnale -nell’eccezione più propria del termine-.
Da quella sera mutò anche il nostro rapporto.
Tito Porazza, o anche Botero, estremizzavano l’idea come pure la voluttà mentre nel salento, Ugo Tapparini semplificava il concetto, modellando la donna con forme tanto elementari quanto simboliche. Il sesso legato alla forma. Il sesso condizionato dalla forma. Il sesso rivisitato nella forma.
Mia moglie, intanto, era a dieta.
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