Quando misi piede al pronto soccorso, già facevo fatica a sostenermi sulle gambe. La testa mi scoppiava e i pensieri si accavallavano con ferocia. Ognuno viveva di vita propria, ognuno decideva per sé ed era una faticaccia stare dietro a tutti e contemporaneamente. La guardia giurata, sessantenne e con l’aria floscia, mi teneva sott’occhio. Ogni tanto mi si avvicinava, con fare rassicurante, ma era ben palese il suo timore nei miei confronti.
Di tanto in tanto una fitta aveva il sopravvento e mi toccava soffocare un urlo. Tutti attorno mi guardavano straniti e distanti.
Loro credevano bene di essere normali. La normalità -banale e fallica-, mi portava all’assuefazione. Per il resto, tutto il mondo gravitava intorno al mio male e il mio male gravitava senza sosta, fra un neurone e una sinapsi di troppo. Il medico non mi diede neanche il tempo di chiarire la situazione. Neppure a me stesso.
Mi diede un’occhiata fugace e senza scampo, poi scrisse, lapidario, su un foglio bianco, dall’aspetto troppo schematico: Ricovero in Psichiatria. Un infermiere, dietro consiglio del medico di turno, si prestò di accompagnarmi e solo la mia occhiata truce lo convinse che gli avrei consentito solo di starmi vicino, senza toccarmi.
Gli ultimi minuti da uomo libero, senza droghe e delorazepan,valium, prozac e quant’altro, gli ultimi passi, se pur barcollanti, indecisi, instabili, eppur vivi,volevo godermeli in solitudine, quella solitudine che mi faceva compagnia quotidianamente. La stessa solitudine che mi portava alla follia.
Uscito fuori dal pronto soccorso, strabuzzai gli occhi ma non emisi suono e tentai più volte di cercare un appoggio per non finire malamente per terra.
Il nuovo padiglione non era per niente rasserenante. Mura grigie e male illuminate. Calcinacci sospetti.
Salì a fatica quei ventisei gradini larghi, in marmo scuro, che il silenzio aveva già preso il sopravvento. Un’ampia sala d’aspetto, spoglia e male illuminata mi diede il benvenuto. Poco più avanti, in tono rasserenante, un distributore di brioches e uno di caffè. Il telefono a gettoni a chiudere quella triste compagnia. Non sarei stato solo.
La dottoressa, garbata ma dai modi sbrigativi, mi fece accomodare nello studio. La guardai teneramente. La ricordavo bella come allora, anni prima, quando i suoi occhi scrutarono sottecchi prima LEI, il mio amore, poi le mie intenzioni.
Lei non poteva certamente ricordarsi di me, non poteva ricordarsi di me che già allora avevo il male dentro e il male dentro era l’amore.
Mi sedetti sulla stessa sedia di allora e i ricordi tornarono come fiume in piena, selvaggio e tracotante. Sentivo lo scrosciare delle acque e ne seguivo il flusso. Un ansa, poi un’altra. La foce era lontana.
Le chiesi di appartarmi in bagno.
Chiusi la porta e la sudorazione iniziò ad essere eccessiva, la pressione prese a calare, formicolio alle gambe che diventarono instabili, poi la vista venne meno e, a tratti, iniziai a vedere nero mentre tutto pareva essere tanto distante. I movimenti sembravano lenti e infiniti. La mia testa si ruppe sulla maniglia della porta. Sangue a fiotti.
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