Si sedette velocemente, vicino la specchiera, aprì con attenzione la scatola cilindrica del fard e prese il pouff rosa.
Lo specchio rifletteva la sua immagine fra i brillantini che tempestavano i bordi. Non così il suo occhio. Quel livido si era, pian piano, assorbito come il suo rapporto con lui, del resto. Tutto era divenuto terra bruciata, tutto era in una sospensione temporale ma in due universi paralleli. Viaggiavano distanti. Distanti anni luce.
Si spostò in cucina, non senza darsi uno sguardo di sfuggita nello specchio del bagno, giusto per assicurarsi di avere una prospettiva differente. Accese la radio e Pinguli pinguli si diffuse per tutta la casa, quasi con violenza. Emanuela Gabrieli, di Triace, si faceva sentire.
Era tutto ok. Certo, Luigi, il ragazzo con cui lavorava, non l’aveva bevuta, ma lui era speciale: sapeva cogliere le sfumature e gli riusciva di carezzare le emozioni. L’aveva guardata come nulla fosse, poi, con tono calmo ma deciso -quasi accondiscendente-, le aveva detto:- cerca di volerti bene! Lei aveva incassato il colpo e lo avevo abbracciato. Lui aveva ricambiato con tenerezza, quasi con fare paterno. Solo una lacrima venne giù. Poi era accaduto un’altra volta, poi un’altra ancora e lei le ricordava tutte come se le vivesse in quell’istante e ricevette lo stesso dolore di ogni volta, di tutte le volte.
Per un periodo, probabilmente, aveva avuto anche la sindrome di stoccolma.
Per ogni pugno una giustificazione e un dolore che accusava per lui, per il lavoro che non gli andava come un tempo, per ogni pugno era lei a chiedergli scusa, ad andargli incontro un dolore al cuore. Neppure la presenza dei figli aveva rallentato la sua furia, la sua scelleratezza. Mezzogiorno. Il campanile della chiesa rintoccò dodici, esasperanti, volte e lei si affacciò fuori casa per depositare, nel cassonetto vicino, il sacco nero della spazzatura di tre giorni. Fece attenzione a non rimanere chiusa fuori casa, togliendo via la chiave dalla toppa della serratura della grata. Dopo i ripetuti furti, dopo le paure che avevano vissuto, lui aveva deciso di mettere le grate dappertutto, con il risultato che ora vivevano come topi in trappola e l’unico sbocco verso la libertà risultava essere la grata che dava sul cortile, adornato con i mattoncini rossi, che abbelliva il frontale.
Quel giorno, non senza una resistenza da parte del figlio piccolo che rivendicava le attenzioni della madre, li aveva mandati a pranzare dalla nonna, con la scusa di un mal di testa incessante. Lui rientrò dal lavoro che era l’una di una buona giornata e il suo umore era gioviale come non mai e lei gli andò incontro come sempre faceva in quelle situazioni. Un bacio a testimoniare che erano ancora insieme, nonostante tutto. Gli occhi di lei rilucevano ed erano stanchi. Il pranzo si consumò nel silenzio più assoluto, mentre lui era intento a leggere la gazzetta dello sport, da eccelso sportivo quale si era dimostrato in tutti quegli anni, con lei.
Di colpo un crepitio e un fumo denso avvolse la cucina e lui non fece neppure in tempo ad accorgersi di quanto accadeva. Nel corridoio, vicino la porta d’entrata, la tenda, posizionata troppo vicino la stufa, aveva preso fuoco e con lei anche la pila di fogli accatastati vicino. Lui imprecò maledettamente come solo lui sapeva fare e i suoi occhi sputavano infamie, come sempre.
Lei si irrigidì e strinse i pugni fino a sentire la carne che si incideva. Il fumo divenne soffocante e le fiamme presero il sopravvento, la chiave non era nella grata. Erano divenuti, in poco tempo, dei topi in trappola. Lui imprecava e tossiva e si muoveva come un dannato cercando alternative. Le grate alle finestre gli bloccarono ogni spunto, mentre le fiamme avevano la meglio sui mobili in truciolato. In poco tempo il fuoco ebbe vinse anche i loro corpi. Il primo a soccombere fu lui, aggrappato alle grate della finestra che dava sul cortile. Lei lo vide soffocare mentre la guardava con viso torvo. Solo allora aprì i pugni, ormai sanguinanti, e lasciò cadere la chiave.
Paolo Congedo
http://www.facebook.com/paolocongedocollemeto