Stamane ho incontrato tuo padre, anche i suoi occhi erano stanchi, come pure i miei ricordi lasciati marcire nell’oblio. Ricordi di latta, come i vecchi giochi dei bimbi di un tempo.
L’aria, di colpo divenuta greve, mi pareva irrespirabile -nonostante fuori il cielo fosse terso, scevro di nuvole chiassose-.
Poi gli ho rivolto il saluto e gli ho stretto la mano, come a cercare una pacificazione tacita. Lui, lo sai, è di poche parole e ancor meno di fatti. Il tempo scandisce solo il solco profondo di una ruga, di un ricordo mancato, di quanti già in bilico. Quanto tempo è passato? Da quanto io non sono me stesso?
Ho la mia libertà e i miei silenzi inopportuni. Sì, inopportuni, come le tue provocazioni e il mio deglutire al buio.
Ancora un passo, ancora uno, posso farcela.
Per ogni passo un ricordo che scivola via, per ogni sorso di martini la distanza mi diventa più lieve.
Adagio.
Le palpebre mi si appesantiscono e, come fossero mani calde, mi invitano alla notte. La notte che vorrei, la notte che ricordo bene, intrisa di poesia e dei nostri corpi che parevano un’oraferia calviniana, mentre Boccaccio stava a rimirar con cupidigia. Poi affondai come lama e i tuoi occhi languidi cercarono l’infinito, mentre il tuo dolore ci vinse in un abbraccio.
Conosco le curve,
delicate e sottili,
del tuo piede
almeno quanto il sorriso
che mi donasti senza chiedere nulla.
Apri le tue mani e accoglimi,
oggi come allora,
che sia solo per un istante
-per me infinito-,
che sia solo per sottolinearmi che ti faccio pena,
in questa mia silenziosa arroganza
che non vale più di due soldi spicci,
o dei trenta denari infamanti.
Io ti cerco ancora.
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