“Resto attaccata a lui perché in fondo mi ama…”.
Come un ramo ancorato ad un albero secco, inconsapevole del proprio germogliare. Si auto-prescrivono così le condanne a morte esistenziali, legate a filo doppio ad un totem, un feticcio autoritario che fagocita anche l’autostima della propria compagna. Le mondine vivono nelle risaie perché han sempre fatto così o per necessità. Piegate su se stesse hanno i muscoli allenati alla fatica e le ossa all’umidità. Continuano ad estirpare nonostante i dolori. A volte si lamentano, ma le loro sono flebili eco che si disperdono nel pantano. Chi subisce violenza non raccoglie nemmeno un chicco di riso. Il suo è un dragare il fondo a mani aperte. E le ferite riportate raramente si rimarginano. Chi subisce violenza firma una cambiale in bianco in favore del suo persecutore, contrae un debito inestinguibile. Mai finisce in pareggio, mai parte in un rapporto alla pari. Il giorno in cui la mondina solleverà la tesa del cappello si accorgerà che oltre la palude immobile, oltre il fango alle caviglie, il fascio del giorno prende luce all’orizzonte, che innanzi il libero arbitrio corre la libertà. “Saluteremo il signor padrone per il male che ci ha fatto che ci ha sempre maltrattato fino all’ultimo momen’ “.
Saveria de Vito