“Per quelle che non ci sono riuscite. Per quelle che ancora non ci riescono. Per chi ne è uscita”: le vittime. E per gli uomini, i potenziali carnefici. Per loro Sabato 26 Aprile alle 21, al Circolo ARCI “Arcobaleno” a Garbatella, in via Pullino 1, andrà in scena Papavero rosso, un “non-spettacolo”, una proposta di riflessione sul “femminicidio”, sui percorsi intimi che lo determinano, condotta attraverso i testi di Marcella Giunti – tre “quadri” totalmente autobiografici, a parte il finale – e le canzoni di Giorgio Gaber che, seppure a dieci anni dalla sua scomparsa, sembrano essere state scritte proprio per riflettere sui drammi che si consumano ancora oggi. A seguire e “commentare” le emozioni dei testi, interpretati dall’autrice stessa e da Stefano Mura, nel ruolo dell’uomo, saranno proprio le canzoni di Gaber, le improvvisazioni e le musiche da film, eseguite da Lidia Vadalà, cantante e regista dello spettacolo, Roberto Petruccio, pianista e arrangiatore, Francesca Jenuso al violoncello e Daniele Falvo alle percussioni.
Di questo “racconto a due voci” per testi, musica, canzoni e immagini, reso possibile anche dalla collaborazione tecnica di Francesco Di Branco, ci parlano due protagoniste, Marcella Giunti e Lidia Vadalà.
“Papavero rosso”, riflessione sul “femminicidio”, tre quadri in un unico atto. Prima di tutto, che cos’è? E da dove nasce? Da quale esigenza?
Marcella: «Papavero rosso è l’esternazione di una persona, quale sono io stessa, che finalmente è riuscita a parlare di ciò che ha subìto, pur avendolo tenuto nascosto per cinquant’anni. I tempi, per molti aspetti, sono cambiati in tutto questo arco di tempo, la donna non veniva creduta quando era maltrattata. E la situazione è rimasta nascosta in un cassetto. Ho sentito l’esigenza di raccontarla oggi, in un momento in cui questo argomento ha una risonanza mediatica, di far parte del coro di quelle donne che denunciano queste situazioni che non sono di oggi, ma sono sempre state, soltanto che prima non ci si credeva. Dal momento che nessuno ci credeva, era come se non esistessero».
C’è stato qualcosa che ha fatto scattare la “molla” oppure è stata una riflessione che piano piano ha “covato” per anni e finalmente è venuta alla luce?
Marcella: «Diciamo che era lì che decantava in un angolo della mia coscienza e avevo quasi rimosso, nel senso che non ne volevo parlare, avevo dimenticato e forse pensavo fosse giusto non parlarne più, perché era una cosa mia. Ma quando l’argomento ha raggiunto una risonanza mediatica e si è cominciato a parlare di altre violenze su tutte queste donne, maltrattate o addirittura uccise, ho voluto unire la mia voce al “coro” per poterlo rendere più forte, per far sì che l’opinione pubblica si accorgesse di quello che succede».
Le tue tre figlie ancora non hanno visto lo spettacolo e tu non vuoi che loro vengano a vederlo. Perché?
Marcella: «Non voglio che vengano perché, anche se loro hanno assistito a tutte le violenze, probabilmente tengono tutto questo accantonato, o forse sotterrato, in qualche angolo della loro anima. Non vorrei rinnovare un dolore che poi io stessa non sarei all’altezza di gestirgli. E non so se loro stesse sarebbero capaci di gestirlo» .
È uno spettacolo adatto a tutti? O c’è un pubblico a cui può essere dedicato e un pubblico a cui deve non essere dedicato, da cui non deve essere visto?
Marcella: «Secondo me deve essere visto da tutti, specialmente dagli uomini. Sono gli uomini che dovrebbero fare una riflessione sul proprio comportamento. Ma non perché voglia dire che la donna è la “santa” della situazione, ma la donna ha delle reazioni diverse, non sono mai reazioni violente fino alla morte. La donna può essere furba, cattiva, maligna, ma difficilmente uccide. Se noi vediamo le statistiche, le donne uccise dalla violenza degli uomini sono il 99,9%, poi ogni tanto qualcuna arriva anche a vendicarsi attraverso l’omicidio».
In questi monologhi tu racconti tutte cose vere, vissute, sono tre “quadri” totalmente autobiografici. Tranne l’ultimo, in cui tu in scena muori, uccisa da un colpo di pistola sparato da tuo marito. Perché hai scelto questo finale, anche se nella realtà, fortunatamente, è andata in maniera ben diversa?
Marcella: «Perché purtroppo il finale con la morte è sempre quello più eclatante, più efficace, quello che colpisce di più a livello di comunicazione. Se non si muore, non si va a finire in prima pagina. Se tu non muori, non sei nessuno».
Ciascuno di questi tre “quadri” ha come controcanto una canzone di Giorgio Gaber. Perché proprio Gaber?
Marcella: «Queste canzoni di Gaber presentano una profonda riflessione sulla coscienza maschile e una denuncia generale di ciò che accade, le parole cantate di Gaber sono pura realtà».
Lidia: «Nel tentativo di trovare qualcosa che spiegasse, senza giustificare, la radice di tanta violenza e di tanta cattiveria così diffusa e troppo spesso ripetuta, abbiamo trovato, fra i testi di Gaber, tre canzoni che illustrano ogni argomento, cercano di far capire il “perché”. Ogni canzone precede il monologo di Marcella. All’inizio le canzoni selezionate erano quattro, l’ultima doveva essere “La parola Io”. Poi invece abbiamo deciso di focalizzare il finale sulla morte della protagonista e sul massimo dolore, per non affievolire in alcun modo la tragicità e la violenza. L’unico “commento” che ci siamo sentiti di inserire, d’accordo con l’arrangiatore, è la musica di Ennio Morricone, il tema conduttore del film “Canone inverso”, che tocca le corde più profonde dell’anima di ciascuno di noi».
Vista la profonda compenetrazione tra monologhi e canzoni, “Papavero rosso” può essere concepito come un “racconto a due voci”?
Lidia: «Si, può essere concepito come un “racconto a due voci”, o meglio, come un percorso attraverso due modi di esprimere una riflessione, perché questo non è uno spettacolo, non c’è niente da spettacolarizzare in un dramma come quello vissuto da Marcella e da tantissime donne. Papavero rosso è una riflessione, fatta attraverso la voce della protagonista, che denuncia dei fatti, e attraverso la voce di un artista, di un libero pensatore, di una grande uomo di pensiero quale era Gaber, che ha saputo, attraverso quei testi, trovare la spiegazione a quelle violenze, la radice di gesti inconsapevoli. Lo spettacolo è assolutamente “bino”, tessuto attraverso due modalità espressive. C’è poi la parte del monologo centrale, interpretato dall’uomo, e quella, in realtà, è allo stesso tempo riflessione e denuncia di se stesso: lì è proprio il “mostro” a raccontare l’insorgere, dentro di sé, dell’attimo della violenza. Parte dall’amore e arriva al gesto di violenza, è veramente la sintesi di ciò che stiamo dicendo».
Dal punto di vista della cantante, come è stato reinterpretare Gaber al femminile?
Lidia:«È meraviglioso interpretare questa riflessione, maschile, sul maschilismo violento, condotta da un grande artista come Gaber. Interpretarla al femminile è ancora più bello perché, attraverso queste splendide e lucidissime parole cantate, si riesce a trovare una sintesi tra la forza, la dolcezza, la sensibilità femminile e la povertà maschile».
Al di là delle spiegazioni che tu e la regista avete voluto cercare in questa associazione di ciascun monologo alla canzone di Gaber, secondo te qual è il motivo che spinge a tanta violenza?
Marcella: «Gli uomini, prima di essere mariti, sono figli. La permissività delle donne verso il figlio maschio li incammina in un percorso autoreferenziale, al maschile, dal quale non riescono a uscire quando hanno una moglie. Inizialmente forse si innamorano, sono anche sottomessi. Poi riemerge l’Io, caldeggiato dalla madre, e finiscono per non sopportare la prevaricazione di un’altra donna che non sia la madre. A questo punto, visto che non arrivano a gestire la situazione con l’intelligenza e con il savoir-faire, ci arrivano con la violenza. Secondo me l’uomo è violento perché non arriva mentalmente a un ragionamento. E, dove manca il ragionamento, emerge la violenza».
Perché è così importante sottoporre il pubblico a cinquanta minuti così crudi, così forti, così intensi e così dolorosi?
Marcella: «Per il solito motivo: perché non sei creduta quando sei soggetta a violenza. Neanche quando si subisce una violenza sessuale sul posto di lavoro. Difficilmente si crede a una ragazza violentata dal capo ufficio, perché si dirà subito che è lei che vuole fare la furba, in quanto donna. Sono proprio le donne, a cominciare dalle madri, dalle sorelle, dalle mogli, a mettere l’uomo su un trono. Da questo dobbiamo uscire! Siamo noi donne che dobbiamo pensare di non farci violentare dagli uomini. E in questo percorso devono cominciare le mamme, se non iniziano le mamme, le mogli non ci riusciranno mai!».
Concordi nel concludere che è uno spettacolo per le donne che non riescono a uscirne, che non ne hanno la forza, ma anche per le donne che ancora non comprendono il danno che possono causare coi propri comportamenti? È dedicato anche a quella parte di uomini che non è violenta?
Marcella: «Soprattutto vorrei stimolare, con questo mio spettacolo, una riflessione profonda, in particolare negli uomini. Vorrei fargli comprendere che c’è un altro modo di vivere e di comportarsi: il dialogo e la comprensione. E c’è l’abbandono, il lasciarsi con civiltà, se in un rapporto, a un certo punto, vengono a mancare questi presupposti e non si condivide più il bene profondo e l’amore».