Il canto, le storie e la poesia di uomini semplici che cercarono conforto alla disumanità della Grande Guerra: ecco i veri protagonisti del nuovo spettacolo Le trincee del cuore, che Ambrogio Sparagna, l’Orchestra Popolare Italiana e il grande Coro Popolare, diretto da Anna Rita Colaianni, presenteranno il Primo Maggio all’Auditorium Parco della Musica, alle 18, in Sala Sinopoli. Le voci e le note di Gabriella Gabrielli, Nando Citarella, Antonio Smiriglia e i Cantori Popolari di Galati Mamertino (Messina), oltre alla voce poetica di Davide Rondoni, contribuiranno a impreziosire ulteriormente questo racconto in musica e parole. Un’occasione per ascoltare e “sentire”, per riflettere, attraverso il canto popolare, sull’attualità della guerra e sulla necessità della pace.
A presentarci questo suo nuovo progetto originale è proprio Ambrogio Sparagna.
“Le trincee del cuore”, uno spettacolo dedicato ai canti popolari della Prima Guerra Mondiale. Al di là della ricorrenza storica – i cento anni dallo scoppio della Grande Guerra – qual è l’ispirazione profonda che ti ha portato a proporre questo progetto?
«È un progetto che segue quello realizzato nel 2011 sui 150 anni dell’Unita d’Italia. Allora ci fermammo agli inizi del Novecento, raccontando la storia d’Italia fino all’immigrazione degli italiani. Qui il tema è diverso, si tratta di confrontarsi con questa strage, con milioni di morti. La Prima Guerra Mondiale ha segnato 20 milioni di vittime ed è stata per l’Italia, come per tutte le nazioni, un momento centrale della storia della comunità. In particolare volevo sottolineare come, attraverso un luogo di guerra, un luogo di conflitto, il popolo avesse costruito un sentimento di amore. E questo grazie ai canti, questo grazie alla solidarietà proprio nella vita di trincea. Sembra paradossale, però in realtà il titolo spiega tutto il progetto, perché è proprio grazie a quell’esperienza di trincea che la gente, per esempio, ha imparato l’Italiano, il popolo ha conosciuto la lingua: attraverso i dispacci militari, attraverso le canzoni che venivano condivise – canzoni legate al corpo militare e di vario genere, canti d’osteria e soprattutto tanti canti d’amore – il popolo dei soldati giovani – molti giovani, tanta truppa, tanta plebe – è riuscito in qualche modo a controbilanciare questa “inutile strage” di milioni di morti».
Perché hai pensato di presentare questo spettacolo proprio in occasione del Primo Maggio?
«Perché il Primo Maggio in Auditorium è il luogo e il momento in cui noi presentiamo i cosiddetti “canti sociali”, canti che sono legati al lavoro, che raccontano il lavoro, il rapporto dell’uomo nella collettività e soprattutto l’uomo nel suo rapporto con la Storia. Come ho fatto già nella precedente edizione del 2011, mi sembrava un momento centrale il poter raccontare il Primo Maggio come diritto al lavoro, diritto all’identità umana, perché senza lavoro non c’è identità, senza lavoro non c’è libertà e democrazia. Mi sembrava fondamentale anche poter raccontare questi canti lontano da certe retoriche, da certe celebrazioni, che, pur essendo necessarie, per certi aspetti, non rientrano però nel mio progetto».
Come hai concepito lo spettacolo? Quale criterio ti ha guidato nella scelta dei canti e come li hai interpretati, cosa hai voluto valorizzare nei tuoi arrangiamenti?
«Si tratta di un repertorio molto imponente, che ha avuto grande diffusione. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale si sono costruiti tantissimi repertori, grazie anche a quello che è stato dopo, ad esempio il Fascismo e le sue espressioni, l’ideologia della retorica militare, del cosiddetto “patriottismo”. Attorno a questa esperienza sono stati diffusi tanti canti, io ho cercato di sceglierne alcuni che mi sembrava rappresentassero il punto di vista più sincero del popolo, quindi anche il popolo che, per esempio, si ribella alla guerra, si ribella all’assurdità di dover combattere persone che non conosce, contesta il dover subire ingiustamente una scelta che è stata fatta dai giovani, dagli studenti, da persone lontane dal suo orizzonte. C’è la partecipazione sincera a un’idea, che, ripeto, è l’idea della trincea, non quella dei generali e delle istituzioni, ma l’idea del popolo. Partendo da questo presupposto, è evidente che poi la rielaborazione, la riscrittura di questi brani ha seguito questo indirizzo, sono canti che dovevano avere un certo tipo di partecipazione. Anche qui ho voluto mettere da parte tutta una serie di retoriche negli arrangiamenti musicali: tutto quello che comunemente chiamiamo “canto alpino” io ho tentato di “alleggerirlo”, di riportarlo a una dimensione, dal mio punto di vista, più legata all’aspetto originario di queste canzoni».
Lo spettacolo è anche un alternarsi di letture e canti? Ci sono anche delle testimonianze?
«Si, ci sono anche alcune letture, alcuni passi. Ma i testi di per sé sono così forti… C’è sempre nei nostri spettacoli questa attenzione alla poesia, anche in questo caso ci sono alcuni interventi che fa Davide Rondoni, ma non è un recital in cui si presentano, ad esempio, le poesie di Ungaretti. È tutto concentrato proprio sul tema del canto, volutamente, perché le letture raccontano storie piuttosto che impressioni o sentimenti individuali, storie dentro questo universo di un popolo che risponde all’assurdità della guerra con le piccole cose, con i piccoli esempi, con quella solidarietà, con quell’umanità che poi, alla fine, è la parte che si ricorda della guerra. Oltre ai milioni di morti, noi ricordiamo anche un sentimento di solidarietà tra le persone, la partecipazione al corpo, al gruppo. Basti pensare a un brano come Il testamento del Capitano, intriso di retorica, perché da lì poi si sono creati i cosiddetti “reliquari”, i “sacrari”… Anche qui, io ho cercato di scioglierlo da questo, di ricondurlo alla dimensione del canto popolare più antico: non a caso è un brano che appartiene a una tradizione arcaica, cioè la vicenda dell’eroe che muore, viene sepolto e dalla sua tomba nascono i fiori. Una tradizione che verrà ripresa con la guerra partigiana, Il testamento del Capitano diventa Bella ciao. È importante segnare questo legame che unisce la storia e i canti».
In uno spettacolo come questo, dedicato a un’esperienza così “corale”, quale è stata la Grande Guerra, che ruolo ha il Coro Popolare diretto da Anna Rita Colaianni?
«Come in tutti i miei spettacoli, ha un ruolo “epico”, sancisce la Storia, la partecipazione collettiva, in una dimensione che non è soltanto quella di eseguire le parti in polifonia, ma soprattutto di costruire questo senso di partecipazione alla Storia. Il mio non è un lavoro di carattere esclusivamente musicale, cerco di raccontare la Storia utilizzando la musica, quindi il coro ha un carattere “brechtiano”, rappresenta il popolo della trincea che canta».
La Prima Guerra Mondiale, nella sua estrema tragicità, è stata una straordinaria esperienza di massa e un’occasione di incontro fra uomini di regioni diverse, che altrimenti non si sarebbero mai nemmeno intravisti. Che ruolo ha avuto questa convivenza in trincea nella diffusione della cultura e dei canti popolari?
«Ha avuto un ruolo determinante, perché proprio grazie alla Prima Guerra Mondiale, come dicevo, il popolo ha imparato l’Italiano e ha imparato le canzoni, e le canzoni poi si sono diffuse, è abbastanza normale trovare canti del Nord nel profondo Sud. A me è successo, per esempio, quando facevo il Direttore della Notte della Taranta: nel 2003-2004 a Spongano, a Capo di Leuca, registrai un canto, Donna lombarda, che è diventato, nella versione salentina, Donna lubarda, ma il racconto, la storia, la linea melodica è la stessa. Questo per dire che, alla fine, la memoria, la traccia della Prima Guerra Mondiale si è conservata fino a pochi anni fa».
Secondo te, in generale, che funzione ha il canto per l’uomo e, in particolare, che ruolo ha avuto per questi uomini che si ritrovavano ad affrontare questa tragedia della trincea?
«Voglio raccontare una storia legata a una canzone che eseguiamo, Voi durmite ancora, uno degli esempi più belli del canto popolare siciliano. Si dice che la notte di Natale un giovane, innamorato perso della sua bella, abbia cantato questa canzone al fronte e che la voce di questo ragazzo così dolce, così innamorato,così profondamente ingenuo, che intonava questa splendida linea melodica, abbia indotto un silenzio generale e, dall’altra parte della trincea, alla fine della canzone si sia mosso un applauso convinto, tanto che, si racconta, quella notte smisero i bombardamenti. Le armi, per qualche motivo, si fermarono. Mi piace raccontare che ciò sia avvenuto anche grazie a questo canto, grazie alla forza, all’energia di un canto d’amore che racconta un sentimento pulito e che, in quell’atrocità della guerra, poteva essere veramente l’unico antidoto all’assurdità di ciò che accadeva intorno».
A proposito di tradizione e trasmissione orale, mi viene in mente una riflessione di Gustav Mahler: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere». Cosa ne pensi? Secondo te la riscoperta della tradizione può essere ancora attuale e può avere un ruolo attivo nella cultura contemporanea?
«Mi sembra proprio che questa citazione di Mahler sia pertinente: la tradizione, di per sé, è il fuoco, se non c’è fuoco è morta. Il fuoco va tenuto sempre vivo, come gli antichi romani che tenevano questa linfa sempre accesa. Nella musica questo rapporto deve essere sempre chiaro, non si può pensare alla tradizione come un’esperienza soltanto di conservazione museale. Quest’ultimo aspetto può essere utile per un segmento, perché genera una maggiore facilità nella tutela di certi materiali, però la musica e il canto popolare vive solo se è trasmesso e solo se ha un ruolo condiviso con gli altri. Non esiste il concetto di “canto popolare” come un documento chiuso in un museo. Il canto popolare si trasmette per tradizione orale e, nel momento in cui non ha più una sua trasmissione, muore, non è un’opera di un compositore che poi può essere recuperata, reinterpretata attraverso una prassi che metta al centro un processo di rielaborazione estetica. Il canto popolare vive esclusivamente nella regione della sua funzione di testimone della contemporaneità e mai come oggi abbiamo bisogno di questo ruolo dei canti. Certo, può sembrare anacronistico che noi, oggi, andiamo a cantare i canti da osteria – come “di qua e di là del Piave c’è un’osteria / là c’è da bere / là c’è da buon mangiare / e un bel letto da riposare” – però questo anacronismo, se uno lo legge nella metafora che il canto sempre genera, diventa fondamentale, perché riconduce a una necessità di “comunione”, di “comunità”. Questi termini, che uso spesso, sono la “conditio sine qua non” di questo lavoro, perché altrimenti non avrebbe nessun senso. Io lo dico a chiare lettere: mi interessa più l’uomo, la Storia che la musica. Poi, ovviamente, come musicista, la musica è uno strumento fondamentale, altrimenti non si riesce a comunicare. Ma a me serve raccontare l’umanità, e sopratutto, di fronte a storie come queste, di atrocità e di umanità violata, la mia ribellione diventa sempre più forte, così come la necessità di raccontarla alle nuove generazioni. Ovviamente con una reinterpretazione che parte da un mio bisogno artistico, ma anche dalla necessità di voler creare una platea molto più ampia di partecipazione, come dev’essere. Io non faccio niente di straordinario, la musica popolare è sempre stata così, ci sono sempre stati quelli che hanno reinterpretato storie antiche, perché c’è sempre stato un passaggio di tradizione. La stessa parola “tradizione” ha come radice “trado”, che significa “trasferire da una parte all’altra”, questo passaggio di comunicazione e di conoscenze fa parte del progetto stesso».
Quale messaggio vuoi comunicare con questo spettacolo, “Le trincee del cuore”, dal titolo molto forte, tragicamente poetico? Cosa vuoi che resti al pubblico quando uscirà dalla Sala Sinopoli?
«In primo luogo, voglio sottolineare l’assurdità della guerra. Ma non è retorica: tutti i giorni, oggi, sentiamo parlare di focolai di guerra da tutte le parti, l’Europa sta vivendo un periodo assurdo, basta pensare alla vicenda dell’Ucraina. Continui focolai di violenza, continue invocazioni di richiesta di ulteriori armamenti, spirali che poi, alla fine, hanno generato la Prima Guerra Mondiale. La Grande Guerra è stata l’esaltazione della potenza militare senza freno, si è arrivati alla follia totale, l’idea stessa che dei giovani potessero immolarsi per la guerra è qualcosa che comunque va fatta conoscere, per quel poco che ognuno è in grado di fare. Io non darei per scontato che tutto si conosce, anzi, penso che si conosce poco. Io stesso, come molti della mia generazione, ho avuto modo di conoscere dei reduci della Prima Guerra Mondiale, ma i miei figli, ad esempio, non sanno assolutamente cosa è stata questa guerra. I canti, in qualche modo, sono una sorta di avvicinamento. Quello che emerge da questo spettacolo è il bisogno di “comunità” e il rifiuto totale dell’arroganza della guerra, che è un fatto reale. Io sono stato recentemente in Libia: lì trovi assurdo che un popolo, che ha una ricchezza straordinaria, una storia millenaria, non debba vivere in tranquillità perché c’è un’organizzazione tribale che vuole la guerra a tutti i costi. Tutti i luoghi che ho conosciuto, dalla Libia all’Iraq, mi hanno sempre impressionato per questo aspetto assurdo della presenza della guerra che, invece di essere negata, comunque, a un certo punto, ritorna, plasmata da altre cosiddette necessità. Io conservo questo forte animo pacifista, formato a partire dai primi anni Settanta, e lo rivendico a tutti i costi. Mi è rimasta questa profonda attenzione ai temi del pacifismo, che considero necessità primaria per l’umanità».
di Roberto Petruccio