«Parlare di musica è come ballare di architettura» così recitava un vecchio aforisma del grande Frank Zappa, quando qualcuno gli chiedeva di spiegare i suoi lavori discografici.
Un po’ come dire che la musica non si può spiegare, si deve solo ascoltare.
Forse sarà così o forse no!!
Proveremo a scoprirlo nell’intervista a Ezio Guaitamacchi, giornalista, saggista, scrittore, autore e conduttore radio/tv ma, soprattutto, musicista e profondo conoscitore di musica e di musicisti.
Ha fatto della sua passione un mestiere, quello del giornalista musicale, col quale non si limita a raccontare storie, ma le sviscera, le mette a nudo, trasportando il lettore in una sorta di trance emozionale – in quel preciso istante e in quel preciso luogo nel quale l’evento si è verificato – come in un viaggio nel tempo.
Un moderno menestrello che, nelle sue performance live, racconta in musica tutte le storie che hanno fatto la storia del rock.
Ma non finisce qui: nonostante continui a sostenere di non essere un insegnante, tiene un master in giornalismo e critica musicale nel quale cerca di trasmettere al meglio tutta la sua conoscenza ed esperienza ai suoi allievi.
Durante questa lunga chiacchierata con Ezio Guaitamacchi, che vi proponiamo divisa in due parti, ripercorriamo le tappe fondamentali della sua carriera.
«Mio papà voleva che io facessi il conservatorio, ma io ho deciso di non farlo.» racconta «Lui se n’è andato talmente presto che non ha avuto modo di vivere le mie scelte. Mia madre invece era molto ‘mamma’ per cui qualsiasi cosa facessi per lei andava bene. Mi sono laureato alla Bocconi nel 1980 e per dieci anni ho fatto un lavoro che non riguardava la musica; quella è arrivata alla fine degli anni ottanta».
Per sintetizzare quale sia il pensiero del resto della sua famiglia riguardo al suo lavoro, Ezio cita una frase della sua nipotina: «Il più figo di tutti è mio zio che di lavoro ascolta i dischi».
– Quando e come hai scoperto che la tua passione per la musica avrebbe prevalso su tutto e hai capito e deciso che questa sarebbe stata la tua professione?
Fui coinvolto da Renzo Arbore in una bellissima avventura chiamata “Quelli Della Notte” in cui partecipavo col mio gruppo; in quegli anni avevo già il giornale (Hi, Folks! ndr), organizzavamo festival e convinsi Renzo ad ospitare per una setimana nel suo programma alcuni gruppi che avrebbero partecipato poi al rock festival sulla musica folk americana, blue grass, che avevamo in programma. Due anni dopo Arbore mise in piedi “DOC” e mi offrì la possibilità di una collaborazione come “segnalatore di cose strane”. In quel periodo, nel 1987, la persona che gestiva con me il giornale lo abbandonò ed io lo presi in mano a tutti gli effetti. Questo mi mise davanti ad un primo momento di scelta che però rimandai e per qualche anno mi barcamenai tre queste due realtà lavorative. Poi anche a causa di motivi personali, tra cui un divorzio, capii che quello che stavo facendo non era solo un gioco ma veniva riconosciuto e, dovendo scegliere, decisi per la cosa che mi piaceva di più. Non che l’altra non mi piacesse, però questa mi piaceva di più!
– Conosciamo il tuo percorso nel giornalismo e nell’editoria, nella televisione e nella radio, ma com’è nata l’idea di proporre i tuoi lavori in chiave musicale, creando dei veri e propri mini concerti nei quali dai ampio sfoggio delle tue doti di polistrumentista?
Dovevo presentare il mio primo libro Musica, I Love You! allo Zelig di Milano. Nel libro intervistavo molti personaggi famosi e alcuni avrebbero dovuto partecipare alla serata come Michele (di Gino e Michele, ndr) che avrebbe dovuto cantare un pezzo di Ivano Fossati. In realtà alla serata parteciparono in pochi, allora coinvolsi altri amici che suonavano con me e in quell’occasione ho realizzato una cosa che assomiglia ad uno spettacolo, racconto e musica. Sei o sette anni dopo in occasione dell’uscita di Figli Dei Fiori, Figli Di Satana, ho messo in piedi uno spettacolo vero con racconti, visioni e musica; poi con Peace And Love ho coinvolto anche l’artista – pittore Carlo Montana, inserendo cosi anche una performance di arti visive.
– La dote che più spesso ti viene riconosciuta è quella di riuscire a trasportare il tuo pubblico nel ‘hic et nunc’ della narrazione, come in una sorta di viaggio nel tempo. Questa capacità risulta ancor più accentuata nei tuoi live show, tanto da farti guadagnare l’appellativo di “menestrello del rock”. Ti riconosci in questa definizione o è una veste che ti sta un po’ stretta?
Alcuni mi chiamano lo Sherlock Holmes del rock’n’roll! L’idea è quella di intrattenere, divertire e incuriosire, in maniera intelligente spero, con racconti che fanno parte della storia del rock che è talmente eccezionale, divertente e strana di suo, che non c’è neanche bisogno di inventare più di tanto. In fondo i menestrelli facevano questo: raccontavano, intrattenevano. Io spero di farlo in maniera divulgativa, che unisca la leggerezza al contenuto.
– I tuoi show sembrano dei veri e propri concerti. Perchè è così importante il rapporto con il pubblico? È il musicista che è in te che non riesce a rimanere in silenzio e prevarica il giornalista/scrittore?
Non so, io gioco molto su entrambi gli aspetti: quando sono in mezzo ai giornalisti faccio finta di essere un musicista e viceversa. Ma alla fine sono anche docente, autore… Per me l’importante sono sempre stati i progetti e le idee. Non vedo un duplice ruolo, ma un ruolo unico che è quello di intrattenere e divulgare che può essere realizzato in vari modi: uno di questi è quello di stare su un palco dal vivo, di fronte alla gente raccontando, che credo sia uno dei modi più divertenti e gratificanti. Questa è un’idea che ha funzionato, un’idea che, se ci fossero più mezzi, potrebbe avere dei riscontri anche maggiori ma, tra i mezzi richiesti, c’è anche il tempo che in questo momento io non ho.
– Nel corso della tua carriera hai conosciuto ed intervistato i più grandi esponenti della musica mondiale. Qual’è il personaggio che ti ha colpito di più, in positivo e in negativo? E qual’è – se c’è – il rammarico più grande, l’intervista mai realizzata?
Bob Dylan sicuramente!! Una vera intervista con Joni Mitchell e poi i grandi di cui ho studiato le morti: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison… Però tra tutti il rammarico più grande resta sicuramente Bob Dylan. E non saprei nemmeno cosa chiedergli! Però l’idea di intervistarlo chiuderebbe la mia carriera, sarebbe come il gol della finale dei modiali! Tra quelle realizzate ricordo James Taylor, Jackson Browne e Santana: lunghe chiacchierate, grandi ed interessanti conversazioni. Però emotivamente non posso dimenticare una fantastica intervista con Ray Charles e una cena con David Crosby…
FINE PRIMA PARTE…
ALEX PIERRO