Perchè in Italia non riesce a crescere una forza autenticamente socialista e democratica, sinceramente laica ( che non vuol dire antireligiosa, chiaramente), riformista ed europeista quindi, proprio per questo, consapevole anche di limiti, e contraddizioni, della stessa costruzione comunitaria negli ultimi vent’anni)? E perchè la sinistra italiana continua ad essere dominata, da un lato, da un’ideologia massimalisteggiante, a priori anticapitalista (tranne quando si tratta di imprenditori ad essa vicini…), mentre la sua componente oggi maggioritaria, l’area PD, sembra davvero aver abbandonato qualsiasi progetto di “riformismo forte”? Se lo son chiesto, alla Biblioteca del Senato in Piazza della Minerva, relatori come Luciano Pellicani, docente di sociologia poitica alla LUISS e direttore emerito di “Mondoperaio“, Gerardo Bianco, presidente del’ Associazione ex-parlamentari e presidente emerito del Partito Poopolare, Lugi Fenizi, funzionario del Senato e storico.Presentando l’ ultimo libro di Giuseppe Averardi (senatore emerito e giornalista, già direttore di “Ragionamenti“, la vecchia rivista mensile del PSDI, e poi di “Ragionamenti Storia“, testata di dibattito storico dell’ area riformista) “Socialdemocrazia-L’altra voce dell’ Europa” (Roma, Datanews ed., 2014, E. 20,00).
Molte, le cause di quest’anomalia: dall’eredità negativa di fenomeni come la Controriforma, col suo incredibile peso di “catafalchi dogmatico-liturgici” e servilismo verso il potere al fascino che su larga parte del movimento operaio ha esercitato, per decenni, il massimalismo comunista, soprattutto togliattiano (che, sulle orme di Lenin, addirittura proclamava la lotta alla socialdemocrazia sua principale ragione d’esistere).
“Piu’ in generale – ha osservato Luciano Pellicani – può dirsi che l’ ipoteca massimalista sulla sinistra italiana è stata posta sin da un secolo fa, con quel rovinoso congresso socialista di Reggio Emilia (1912), quasi alla vigilia del folle tentativo di suicidio che l’ Europa avrebbe fatto con la “Grande guerra”: congresso che vide il declino dei riformisti turatiani e l’ascesa dei massimalisti, con l’ astro sorgente Mussolini in primo piano“.
“In effetti– ha aggiunto Gerardo Bianco – già dal primo dopoguerra, e soprattutto nel secondo dopoguerra, le socialdemocrazie europee – dal laburismo britannico all’ SPD tedesca, dai socialdemocratici scandinavi agli “austromarxisti”, movimenti tutti studiati da Averardi in questo libro – hanno costruito lo Stato sociale in cui viviamo. Raccogliendo anche l’ eredià di altre forze (come il governo di Bismarck in Germania, e lo stesso regime fascista in Italia) che pure s’erano poste in questa direzione.E in alcuni di questi partiti socialdemocratici ( come nel Labour inglese e nell’ SPD tedesca, col Manifesto di Bad Godesberg) era presente anche una forte impronta etica, molto vicina a quella cristiana. In Italia, però, dopo il primo Centrosinistra degli anni ’60-’70, l’occasione d’un nuovo incontro tra riformismo socialista e cattolico è stata miseramente sprecata col fallimento dell’ Ulivo, formazione che pure aveva acceso tante speranze vent’ anni
fa”. Sulle anomalie italiane – sempre raffrontate alle grandi realizzazioni delle socialdemocrazie del Nord Europa – s’è soffermato anche Luigi Fenizi, mettendo il dito nella piaga del postcomunismo (da Occhetto a Renzi): “costantemente diretto da una classe politica che è divenuta in tutta fretta “post” senza mai essere stata “ex”- comunista, senza mai aver avuto il coraggio d’avviare una Bad Godesbeg italiana“.
“Tutti ritardi, questi“, ha concluso l’ Autore, Giuseppe Averardi, ” che pesano come macigni, oggi, su una capacità della sinistra attuale (o di quel che ne rimane) di formulare un programma credibile e dettagliato per la ripresa dell’ Italia, o almeno per indicarle, come avrebbe detto Silone, un’ “Uscita di sicurezza”. Ma tutta la sinistra, a guardare bene, deve fare autocritica: perchè, ad esempio, il sindacato in Italia riesce ad essere, il piu’ delle volte, solo conflittuale e corporativo, e non anche propositivo ( su investimenti e sviluppo delle aziende, per non parlare di cogestione), come in Germania e in Svezia? E perchè ( ne parlavo con lo stesso Luigi Angeletti, che ammetteva sinceramente questo grave limite di tutti i nostri sindacati) si chiude nelle a difesa dei soli lavoratori dipendenti, senza quasi occuparsi dei milioni, in grave crescita, di giovani senza lavoro? Facendomi soprattutto queste domande, per una forte ansia di verità e di giustizia, ho scritto questo libro“.
di Fabrizio Federici