Una chiacchierata faccia a faccia con Gerry Bruno, in un fiume di racconti tra ricordi, emozioni e un pizzico di nostalgia.
Una carriera costellata di successi straordinari, come la partecipazione all’Ed Sullivan Show e quella volta con Elvis Presley e Brian Jones.
Gerry Bruno: come racconteresti la tua storia e gli inizi della tua carriera?
Raccontare la mia storia, modestie a parte, non e molto facile… Ho fatto tante di quelle cose!
I Brutos nascono nel 1958/59, però Gerry Bruno esordisce nel 1956 come ballerino comico, ispirato da Jerry Lewis e dai film in bianco e nero americani. Dopo le scuole andavo nelle balere di Torino con il mio amico Jack Guerrini, chitarrista e figlio d’arte anche lui come me (papà scultore e fratelli pittori). Io ero considerato un degenere perché avevo scelto le sale da ballo.
Con Jack iniziammo nei week end ad andare nelle sale da ballo alla maniera di Dean Martin e Jerry Lewis. All’epoca si guadagnavano poche lire, ma la passione, in compenso, era tanta. Persi anche il mio lavoro: ero stato raccomandato da un prete dell’oratorio salesiano a Torino che mi aveva affidato ai grandi dirigenti della TST, una tipografia dove si stampavano enciclopedie. Mi ero già avviato alla scuola serale di linotipista… La mia fine doveva essere dietro a una macchina da scrivere col piombo fuso: una tragedia!
E i Brutos come nascono?
I Brutos nascono perché, con il mio amico Jack, decidemmo – sia per fame sia per tentare la fortuna – di presentarci al teatro Alcione Di Torino dove passavano le compagnie di avanspettacolo. Era l’ultima carta da giocare, se no avrei continuato a fare il tipografo e lui il fotografo.
All’epoca non si parlava di provini, era più un ‘vai e fai‘. E quando il commendator Zanfrognini ci vide, ci fece un contratto da dieci anni perché aveva trovato in Jack un matto fuori di testa, e in me una copia esatta di Jerry Lewis. Attorno a noi due ideò una compagnia che si chiamava ‘Il Teatro dei Pazzi‘, dove c’erano anche gli altri futuri Brutos (Aldo Maccione, Gianni Zullo – che aveva fatto molto avanspettacolo – ed Elio Piatti, ballerino).
Iniziammo a fare un anno di avanspettacolo e la fatica era enorme: facevamo due o tre spettacoli al giorno.
I Brutos nascono in una serata di prove: serviva un numero da sottofinale che nacque un po’ per ispirazione da un altro numero visto in teatro, un po’ dai film in bianco e nero.
Quella sera, durante le prove, iniziammo a prenderci gioco del cantante… Così nacque la gag e il commendator Zanfrognini disse «Continuate a fare così». Quella notte c’era in sala anche un ex attore che ci suggerì di fare una cosa vista al teatro Maffei dal comico Mario Ferrero, ovvero l’idea di un quintetto vocale con gli elementi fermi, immobili. Erano un po’ i precursori dei Brutos.
Il giorno dopo ci presentammo quindi sul palco con la canzone ‘Little Darling‘ e fu un successo travolgente; da lì in poi iniziammo prove su prove con tutte le canzoni che andavano in voga all’epoca.
Peculiarità dei Brutos erano grande tecnica vocale e grandi armonizzazioni abbinate a gag strampalate, caratterizzate dalla storpiatura delle canzoni. Si può dire che siete stati i precursori del successivo genere demenziale?
Si, probabilmente oggi si chiama così, ma allora si chiamava ‘commedia dell’arte‘ e tutto ciò che si faceva veniva inventato sul momento. Solo dopo molti anni ci rendemmo conto di aver inventato un genere di comicità fondata sull’arte dell’improvvisazione. Nel caso dei Brutos era maggiore questo tipo di comicità: il cantante cantava canzoni serie al centro ed era estraneo a ciò che accadeva intorno a lui, e le coppie formate da Aldo Maccione e Gianni Zullo (lo schiaffo e il dentino sarebbero nati dopo) da una parte e Gerry con Elio Piatti dall’altra, facevano delle cose inerenti al testo. Per quanto riguarda la coralità, tutti in teatro sapevamo bene o male cantare e ci eravamo affidati al maestro Cardona, che ci dava le voci per i coretti. La parte comica era invece improvvisata e il dentino nacque per un tormentone che scrisse per me Gustavo Palazio, dove io comparivo come bambino che recitava la poesia ‘La Vispa Teresa‘. Il bambino a un certo punto non ricordava le parole e andava via piangendo. Dopo un po’ tornava, era cresciuto, era diventato commendatore.
Ma il segno identificativo, il dentino, era rimasto e recitava la stessa poesia in stile ‘cummenda‘ e arrivato allo stesso punto non ricordava il testo. Alla fine arriva un vecchietto col bastone, recita la poesia e arrivato allo stesso punto gli piglia uno ‘sciopon‘ e muore. E la mamma: «Eh, ma era così tanto bravo…».
Il dentino nacque in quell’occasione.
Com’era il panorama musicale in quegli anni? Si cominciavano a sentire le influenze dagli States, dall’Inghilterra?
No, assolutamente no. Le influenze le coglievano solo gli appassionati, o chi stava di notte sveglio ad ascoltare Radio Luxembourg o radio Carolina e masticava un po’ l’inglese. Però non c’era mercato in Italia, bisognava avere già una passione e una cultura personale di cinema e dischi. In questa ‘scuola’ radiofonica ci ha aiutato moltissimo l’ascolto del Quartetto Cetra, da dove abbiamo preso le tonalità e i cori.
Io avevo questa tripla passione: la musica americana, qualche 78 giri regalato e Radio Luxembourg.
Il boom dei Brutos nasce nel 1959 e il giorno che arrivammo in America, dopo aver già fatto il giro d’Europa, venimmo ‘consacrati‘. Lì ebbi modo di vedere non soltanto i grandi comici, ma di capire davvero quel mondo che avevamo sempre sognato e visto al cinema.
Rimanendo in America, il successo è meritatamente arrivato e la cosa che spicca di più è che Ed Sullivan vi volle nel suo show…
La cosa di Ed Sullivan quando la racconto ai miei amici non ci vogliono credere…
Ed ci aveva visto all’Olimpia di Parigi e non ci fece un contratto solo bensì due.
Noi avevamo il nostro cavallo di battaglia che era ‘Little Darling‘ e durava circa 2 minuti e 45 secondi.
Andammo negli studi della CBS per una settimana a provare quella canzone, insieme a un altro brano di Modugno dal titolo Io, la stessa canzone alla quale si era interessato Elvis con me.
Fu surreale provare in quello studio, circondato da cinque o sei persone con matite e block-notes, un solo pianista e noi che eravamo un po’ ‘fumantini‘ (ride). Ognuno di loro scriveva e si occupava di ogni elemento e di ogni gag.
Alla fine, dopo sei giorni di prove, registrammo la canzone e ne uscì un capolavoro! Non c’era un solo primo piano o una gag persa… Però il regista, da due minuti e 47 secondi la volle far durare 2 min e 30 secondi, perché c’erano dei secondi in più che, nell’economia degli americani, non funzionavano. Avevano ragione loro! Lì cominci davvero a capire come funzionano le cose su un palcoscenico…
La commedia dell’arte ha funzionato anche a Las Vegas dove la gente, che magari ha perso dei soldi ed è arrabbiata, non ha voglia di divertirsi.
Ma devo dire che ci hanno sempre applaudito.
Tutti questi spettacoli in giro per gli States e una sera, tra il pubblico, c’è Elvis Presley…
Mi fa sorridere questa cosa, perché tutte le volte che l’ho raccontata ci fosse stato uno che mi abbia creduto! Certo, non l’ho potuto filmare per ovvie ragioni di privacy. Era vietatissimo filmare gli spettacoli del casinò. Quella di Elvis è stata una parentesi bellissima; era appena tornato dal servizio militare e di solito, prima di andare a Memphis, passava a Las Vegas per i suoi affari e per vedere i suoi amici. Quella sera lui vide il nostro spettacolo, fu una ballerina a segnalarcelo e allora io, che con gli occhi storti non riuscivo mai a focalizzare, misi a fuoco per un attimo e lo vidi. Era con tre bei ‘fustoni‘ (i bodyguards) e rideva come un matto, sguaiatamente… La cosa ci fece molto piacere, ma era nell’ordine delle cose perché la sera prima, al tavolo dei dadi, avevo giocato con Paul Newman di fianco e Dean Martin l’ho conosciuto lì!
Elvis ci vide, volle bere un drink con noi e noi chiamammo qualche ballerina; poi lui si fermò anche al secondo spettacolo. Capii dopo molto tempo che era interessato anche alle nostre canzoni, ricordo che mi parlava di Modugno (aveva appena inciso It’s Now Or Never. Poi mi chiese «Do you know Las Vegas? Do you want to make a tour with me?» (Conosci Las Vegas? Vuoi fare un giro con me? n.d.r.) io rimasi un po’ allibito, poi risposi «Why not?» (Perché no?).
Abbiamo fatto il giro di cinque o sei alberghi che lui conosceva e poi mi ha riportato là dove mi aveva preso, al Dunes Hotel, dove lui alloggiava e mi disse «Ok Jerry, it was very nice to meet you...» (Ok Jerry, è stato molto bello conoscerti) e se ne andò.
Io me ne tornai al mio alberghetto.
La cosa poi la raccontai in giro e dissi che ero stato tutta la notte a girare e a bere con Elvis (lui peraltro beveva acqua o soda, non l’ho mai visto bere alcool).
Avevi avuto modo di assistere a qualche spettacolo di Elvis prima di incontrarlo?
Elvis lo conoscevo dai film in bianco e nero. Mi piaceva perché faceva Rock, ma non ero affascinato molto, preferivo altri che l’avevano preceduto. Poi, sentendo tutto il suo repertorio durante il servizio militare (lui era un melodico e cantava canzoni stupende), mi sono innamorato, però non ho mai visto un suo spettacolo.
Credo che tra Gene Vincent e Elvis fosse una bella battaglia. Gene Vincent aveva inciso Be Bop A Lula che era un brano ballabile e invece Elvis cantava Jailhouse Rock, che ricordo perché all’epoca io ballavo ancora con i Rock Stars Boys, avevo sedici o diciassette anni…
In Italia, all’epoca, si aveva già la percezione di quello che sarebbe stato Elvis e quindi anche un po’ di timore reverenziale nell’incontrarlo?
In pochi l’hanno avuta.
Io sono stato sciagurato, sapevo chi era, ma per me non era questa grande star, sebbene – appena arrivato a Las Vegas – il primo disco che ho sentito in taxi è stato It’s Now Or Never.
È chiaro che lo metto fra i primi tre del Rock mondiale, credo che sia stato veramente il mentore, anche se, a dirla tutta, nel suo primo disco Elvis faceva Country-Rock dove si muoveva pochissimo. Le movenze che tutto il mondo ha conosciuto sono state sdoganate dopo qualche tempo con molta fatica.
Dopo averlo conosciuto, c’è qualcosa che ti ha sorpreso, stupito o un comportamento che non ti saresti aspettato?
Si, la sua semplicità mi colpì moltissimo. Mi colpì il fatto che non bevesse superalcolici e il fatto che avesse molti amici e che tutti già lo trattassero come un ‘King‘. Quella sera mi son domandato «Perché io?».
Sarebbe potuto capitare ad Aldo Maccione, ma lui non parlava inglese e poi si vede che non piaceva a Elvis (Aldo era quello che tirava gli schiaffi!). Elvis si ‘innamorò‘ di me per la mia agilità o per la mia faccia… Chissà!
Avete parlato anche di musica quella notte?
Si, ma velatamente, infatti non ho ricordato subito questa cosa.
Mi chiese se nel repertorio avessimo altre canzoni oltre quella che aveva visto. Gli risposi che avevamo anche Piove e Ciao ciao bambina, ma subito dopo lasciò cadere il discorso.
Lui andava nei vari casinò anche per programmarsi un futuro di lavoro. Era senza il ‘suo‘ colonnello Parker, era lì per lavoro e per piacere.
Aveva espresso qualche interesse o apprezzamento verso qualche artista italiano al quale si fosse in qualche modo ispirato?
Per lui c’era Modugno. Era la sua star!
Non penso che conoscesse molti altri artisti, probabilmente Caruso, ma che io ricordi si parlò di Modugno e del suo repertorio. Accennai a Maruzzella e ricordo che abbozzò un sorriso.
Ma sai, è difficile avere le idee chiare, sono passati quasi sessant’anni.
Quella notte avevi la percezione di essere a contatto con un pezzo di storia?
Si, però se facciamo mente locale, in realtà Elvis (che era appena tornato dal servizio militare) dal ’54, quando incise la prima canzone, fino al ’58/’59, non era ancora esploso a livello mondiale. C’era il fenomeno Elvis con i suoi film, ma non era ancora l’Elvis degli anni ’60.
Realizzai che era un grande personaggio, ma non ancora il ‘mito’ che poi è diventato.
Forse, se avessi incontrato Jerry Lewis, avrei avuto quella percezione. Poi lo incontrai e fu una delusione sul piano umano, perché trattava i suoi collaboratori come dei ‘servi‘. Era completamente diverso da quello che io mi immaginavo.
Per quanto riguarda Elvis, solo dopo ho realizzato realmente con chi avessi passato quella notte.
Un altro aneddoto riguarda i Rolling Stones: dopo uno spettacolo all’Olimpia di Parigi, andammo tutti in un locale famoso del quartiere latino.
Io mi permisi di toccare la testa di Brian Jones, che con un’occhiata e un Gin Tonic in mano, mi fulminò.
In Francia il Rock era molto più sentito!
Quella notte, Elvis ti ha mai manifestato l’intenzione di venire a suonare in Italia (cosa che peraltro non è mai avvenuta)?
Qui ci sono due ipotesi: la prima è che il colonnello Parker, avendo delle storie con il fisco americano, aveva paura di uscire dal suo paese perché se fosse uscito non l’avrebbero più fatto rientrare. L’altra ipotesi è che Elvis fosse talmente oberato dal lavoro e il mercato italiano fosse così ‘povero‘, che non gli interessava più di tanto. In quegli anni, poi, era molto occupato a fare cinema.
Io fui presente alla serata alla Bussola dove Bernardini voleva assolutamente Elvis Presley e la famosa battuta che rimase poi scritta nelle storia fu che chi chiese al colonnello Parker quanto volesse Elvis per venire alla Bussola «Quanto gli dobbiamo dare? 50.000 dollari? Fifty thousand dollars, is it ok?» e Parker gli rispose: «For me it’s ok, but how much for Elvis?» (Per me è ok, e quanto per Elvis? – ride…)
Sull’Italia disse le solite frasi fatte: «Sole, mare, i love Italy».
Quello che ricordo bene sono due cose: la risata di Elvis e quella mezz’ora in cui io e Aldo Maccione ci siamo permessi di pagare un giro.
Ricordo che ogni tanto uno dei bodyguard metteva la mano in tasca, passava un pettine a Elvis e lui si pettinava. L’altro bodyguard tirava fuori dalla tasca una spazzolina e gli puliva le spalline.
Elvis era allegro, mi ricordo che faceva domande.
Altro particolare che ricordo è che gli mancava un dente, un premolare, e me lo fece vedere dicendomi che glielo tolsero al servizio militare. Questo non l’ho mai detto a nessuno e l’ho ricordato anch’io solo adesso.
Questo evento ha riportato il ‘Dio‘ sulla terra: per me Elvis era una persona semplicissima e lo dimostra il duplice fatto che ha preso un ragazzo (che non conosceva) e lo ha portato in giro con sé e il dente che mostrava a tutti. Una star oggi non lo farebbe mai.
Quello che posso dire con certezza è che Elvis era ‘umano‘..però considera che non era il ’64 o il ’65, non era ancora quello che sarebbe diventato.
Secondo te è cambiato, in seguito, il suo comportamento?
È chiaro che, quando sei sotto stress e fai tutta la vita così, è un lavoro che ti uccide (non è solo la droga, penso che siano anche i farmaci, che son poi delle droghe alla fine).
Michael Jackson ha fatto la stessa fine e tutti i grandi del Rock hanno fatto la stessa fine, un po’ per il genere musicale e un po’ per lo stress e i viaggi. Una volta, nei primi anni ’60, si viaggiava poco, poi è diventato facile fare i tour e andare in giro; guadagnavi sempre di più, i contratti con le case discografiche, l’obbligo assoluto… E poi sei sicuro che i farmaci possono far tutto, in realtà sappiamo che è tutto il contrario. Io mi ricordo (qui lo dico e qui non lo nego) che all’epoca non c’erano queste droghe, ma se io dovevo fare Torino-Parigi in macchina e il giorno dopo dovevo essere a Madrid (senza aerei), per arrivare prima e far le prove con l’orchestra, allora pigliavo una bella ‘metedrina’, ci buttavo dietro un whiskey e avevo due occhi che sembravano due abbaglianti e se qualcuno mi diceva qualche cosa partiva un cazzotto. L’effetto passava giusto per arrivare, lavorare e crollare. Questo ti dà la sensazione che tutto il resto della tua vita sia così. Chiudevo il mio locale (ne ho avuti tre a Torino), chiedevo al mio bodyguard se avesse il passaporto (lui lo portava sempre) e con la jaguar facevo Torino-Parigi. Arrivavamo a mezzogiorno, andavo in albergo, mi svegliavo e mandavo lui a comprare la biancheria e una camicia, poi andavo al club dov’ero conosciuto. Come finivo pigliavo una ‘pastiglietta’ e tornavo a casa a Torino. Avevo 23, 24 o 25 anni. La cosa è durata sei o sette anni ma quando dura dieci o quindici non puoi reggere. Lì si tratta di fare delle scelte, sono scelte obbligate: o ‘chiudi il rubinetto‘ o…
Tornando dagli Stati Uniti (hai citato prima Elvis, Bobby Solo, Little Tony), qual è la percezione che si aveva. Specialmente per te che avevi conosciuto il re?
Alcuni di loro ti snobbavano (mi spiace ovviamente per Tony, lui era un pezzo di pane, ho lavorato con i fratelli Ciacci). Little Tony era sicuro di sé, sapeva quello che valeva, nel bene e nel male, nel senso che non era un grandissimo cantante però era un grandissimo personaggio. Poi nel corso degli anni è maturato, come Celentano, ed è diventato anche bravo.
La percezione era che tutti quelli che facevano Rock in quegli anni, dal ’63 al ’64 in poi, pensavano di averlo inventato loro. Essendo all’epoca ancora difficile fare chiarezza con i diritti d’autore, con gli autori dei testi, con la SIAE ecc, erano tutti ‘inventori‘ di Rock. Prendevano un disco, lo copiavano (facevano delle cover, ma nessuno lo sapeva) e avevano la sensazione di essere veramente gli inventori del Rock.
Questo a me non piaceva molto: io giravo parecchio e portavo loro i dischi. Gli unici che hanno menzionato questo fatto sono stati Peppino di Capri e Fausto Leali. In un suo libro recente dice nella prima pagina: «Gerry Bruno fu quello che mi porto Heart e che mi portò Twist & Shout dei Beatles». Tutti gli altri erano un po’ montati, perché spinti dagli autori, erano diventati tutti americani con la musica degli americani. Anche i complessi (bravi peraltro) come i Campioni o i Ribelli di Adriano, se la tiravano (e mica poco).
Per carità, erano bravi. Ci sono stati molti gruppi bravi in Italia.
Poi c’è stato il progressive, anche lì ho diversi amici. I Trip erano amici miei, però non seguivo molto quella musica, preferivo magari ascoltare un disco dei Gentle Giant, perché a me piacevano gli originali, anche se non nego che abbiano fatto delle bellissime cose. Però non era il mio genere. Io oggi sento Lucy in The Sky With Diamonds e ho la pelle d’oca. Poi mi piacciono anche i Rolling Stones ma quelli della prima maniera, quando cantavano ancora Under My Thumb o I Can’t Get No Satisfaction, gli ultimi non mi piacciono molto. Quella che fanno adesso non è musica ‘orecchiabile’. Faccio questa riflessione non perché sia beatlesiano..Tu prova a ricordare a memoria dieci canzoni dei Beatles e quasi tutte e dieci le ricordi. Prova a ricordarti dieci canzoni dei Rolling Stones…
E dopo i Brutos?
Aldo Grasso ha scritto pochissimo di noi perché, essendo piemontese, sai, c’è un certo ‘snobbismo’..
Invece, quando è morto Gianni Zullo, parafrasando un disco, scrisse questo titolo: Chiedi chi erano i Brutos, e sotto ci sono due colonne di una tale bellezza…
Ci nomina tutti e fa capire il ruolo di ognuno, dà una bastonata a tutti quelli che vanno a fare Colorado e si credono dei grandi comici e cantanti.
Noi salviamo Elio e Le Storie Tese e anche la Banda Osiris, sebbene sia un gruppo strumentale, ma a parte loro c’è un vuoto tremendo in questo settore.
Quando lasciai i Brutos nel ’70, io andai con Garinei e Giovannini a lavorare e feci due anni di Alleluja Brava Gente a contatto con grandi big come Modugno (che andò via subito, sostituito da Proietti) e Rascel. Io non ero una comparsa, ero un attore di ruolo e ho dovuto apprendere cose nuove. In quei due anni ho imparato tutto ciò che non ho imparato in vent’anni coi Brutos. A Garinei e Giovannini sarò grato per tutta la vita. Ho imparato la disciplina, l’ordine, la precisione, la decenza, la pulizia interna e esterna. Sono tutte cose comprimarie all’essere un attore, guai se non le hai, ti perdi.
Dicevano che Rascel era cattivo. No, Rascel faceva un gran mestiere e pretendeva che accanto a lui ci fossero persone che sapessero fare lo stesso mestiere. Mi adorava perché capiva che ero stato un grande, ma non ero un attore di teatro. Lui mi insegnava le cose e io le recepivo, le facevo mie. Le nuove generazioni non hanno questi punti di riferimento e, imparando la vita dal computer, sparano certe cazzate (ride…)
Con una carriera del genere, sembra difficile trovare stimoli per nuovi progetti, però sappiamo che ci sono ancora delle cose su cui stai lavorando…
La prima cosa è questo ‘maledetto’ libro, ormai sono cinque anni che l’ho cominciato. Scrivere un libro non è facile, specie nel mio caso, perché ho una certa età e devo raccontare cose del passato successe con persone che in gran parte non ci sono più. Quindi è molto difficile, sia per la credibilità, sia perché devi raccontare le cose vere ed essenziali, senza avere di fronte a te un referente al quale chiedere il permesso.
La mia vita è stata bella piena di avventure e di conoscenze. Io sono stato molto amico di Dionne Warwick, che mi amava come un fratello. All’epoca si frequentava in Rue Caumartin, vicino all’uscita degli artisti, un bar che si chiama bar Romain.
Monsieur Papillon, il titolare, era conosciuto per essere un raccoglitore di portachiavi. C’era un barman che si chiamava Jacques.
Noi Brutos frequentavamo già quel bar prima di lavorare con Sacha nel ’65 e il nostro manager Zanfrognini, quando cominciò a farci girare il mondo (fummo anche ricevuti a Estoril, più precisamente a Cascais, a Villa Italia dall’Ex Re d’Italia, Re Umberto...), ci aveva innanzitutto istruito. Per prima cosa ci aveva portato dal grande sarto e ci aveva fatto fare giacche in doppio petto, camicia bianca ecc..
Lui ci diceva «Innanzitutto il portamento! Andate a Parigi, all’Olympia, dovete essere credibili anche nell’aspetto. Cinque bei cappotti di Cashmere blu». Noi quindi fuori eravamo elegantissimi.
Quando con Sacha ci fu quel grande spettacolo a cavallo del ’65 ’66, il Sacha show, con Mireille Mathieu e Dionne Warwick come star (co-star i Brutos), io e Dionne avevamo legato molto, ero una sorta di bodyguard e la accompagnavo dappertutto. Al bar Romain lei, come tutte le americane, mangiava hamburger e coca cola. Io avevo insegnato agli altri a bere un drink molto italiano (non è vero che l’hanno inventato gli americani) è il Giacomo Daniele con ginger Ale, questa frase l’ho inventata io nel 1965. C’era Dionne che si rotolava per terra e si scherzava su questa cosa.
Son passati trent’anni, Sinatra viene a lavorare al Palatrussardi. come ben sai Sinatra aveva sempre il bicchiere di whiskey in mano. Quella sera beveva, tornava con il bicchiere in scena e guardava tutti bevendo senza dire niente, poi disse «No, this is water!» (No, questa è acqua!). Verso la fine torna con un bicchiere diverso, molto alto e quando sta per bere si gira verso la gente e dice «This is not water, it’s Giacomo Daniele with ginger Ale» (Questa non è acqua, è Giacomo Daniele con ginger Ale). Io ero davanti al televisore in casa e mi sono pisciato sotto.
Dionne l’ho rivista fino a poco tempo fa, quando veniva mi telefonava. L’ultima volta è venuta con un altro dei miei idoli, Burt Bacharach. Lui chiese a Dionne chi fosse quel ‘nice guy‘ e lei gli spiegò che ero un ‘comico’.
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‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
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