Rolando D’Angeli, classe ’46, produttore, impresario e manager. ‘Il Manager’ come qualcuno ti ha definito. Ma chi è Rolando D’Angeli uomo. Com’era? Com’è cresciuto? Quali sono state le sue esperienze da ragazzo?
È cresciuto come tanti dopo il ’46. Quelli del ’46 sono cresciuti con tante difficoltà economiche.
Io ne avevo qualcuna in più essendo orfano di padre e di madre. Ho cominciato fin da piccolo a capire quanto era dura la vita.
È cresciuto a Centocelle, Torpignattara, il Quadraro, il Quarticciolo, tutte zone dove il più bravo aveva ammazzato il padre e la madre col gas per intenderci (ride).
Musicista, leader dei Blood Bank Men, attore, agente di commercio, hai svolto diverse attività nella tua vita, tutte sempre con un minimo comune denominatore: una grande passione.
Sentivi dentro di te che la musica avrebbe fatto parte della tua vita? Quando hai capito che questo sarebbe stato il tuo lavoro? Quando c’è stato il passaggio da agente di commercio a manager?
Di lavori ne ho fatto tanti, ne hai dimenticato anche qualcuno: ho fatto pure il minatore e ho scaricato il pesce e la frutta ai mercati generali. Comunque, a parte questo, io sono cresciuto col mito di Elvis Presley, nei famosi anni ’60, che sono quelli che hanno forgiato un po’ culturalmente i giovani della mia età (oppure i vecchi della mia età!)
Quando l’ho capito?
Ho avuto sempre questa passione, ma l’economia personale non mi ha mai permesso di poterla fare come andava fatta. Dovevo pensare prima al panino ovvero a risolvere il problema quotidiano del mangiare, dopodiché nei ritagli di tempo facevo tutto il resto.
Non c’è stato un momento preciso in cui l’ho capito. Forse il destino mi ha voluto traghettare piano piano verso quel mondo pieno di lustrini e di note. Io ero sposato da poco, perché avevo bisogno di mettere su famiglia. Volevo sentire la famiglia e volevo un tetto sulla testa.
Caso strano, quando facevo il rappresentante, la zona di mia competenza era quella della RAI. Era quella dove c’erano i discografici, i giornalisti, i musicisti, i cantanti e gli attori. E mi sono sempre un pochino adagiato su quella atmosfera che si respirava intorno a Viale Mazzini.
Poi, conoscendo uno e conoscendo l’altro, ho incominciato a capire che forse avrei potuto fare tutte e due le cose, come poi è successo. Col tempo ho dovuto scegliere, perché gli impegni da una parte e dall’altra erano troppo onerosi e impegnativi. Però quando ho scelto avevo già le idee molto chiare.
E così parallelamente all’attività di agente di commercio, inizi ad avere delle frequentazioni con l’ambiente musicale, in particolare con l’amico manager Pino Sciortino, tramite il quale poi conosci Vincenzo Fragale che ti apre le porte degli Stati Uniti. Cosa ha rappresentato per te questo incontro? Come lo ricordi?
Me lo ricordo perfettamente! Capirai, per uno come me che cresciuto con il mito americano e che sognava sempre l’America! Accadde che quando questo signor Fragale venne in Italia a firmare i contratti per gli artisti, aveva bisogno di una persona che gli risolvesse un po’ di problemi, come stendere i contratti, spedire i manifesti, tutti aspetti burocratici che dovevano essere risolti affinché gli artisti potessero venire qui.
E quando lui mi portò al bar e mi offrì un caffè mi disse: senti un po’, perché non ti occupi delle mie cose qui in Italia quando io faccio i contratti con gli artisti? Era un po’ come se uno mi avesse detto d’ora in poi sarai ricco e allora ho accettato!
Ricordo che il primo contratto che feci fu con I Camaleonti e per premio mi fece fare un viaggio in America: non stavo nella pelle, la prima notte non ho dormito!
Alloggiavamo di fronte al Madison Square Garden, ma mi dissero che non mi dovevo allontanare perché era pericoloso, allora ho girato tutta la notte col naso in su attorno all’albergo, fino alle sei della mattina! (ride)
Nei tuoi vari viaggi in giro per il mondo avrai sicuramente incontrato mote persone stravaganti, interessanti, a volte anche inquietanti. C’qualche personaggio che ricordi in modo particolare, nel bene o nel male? E perché?
Beh, ce ne sono stati diversi. Una volta in America ad esempio Fragale mi disse di contattare Milva e lo feci, non sapendo che Milva aveva avviato una trattativa con un’altra società concorrente. Così io che faccio sempre le cose in modo molto veloce, perché penso che i problemi – quando ci sono – vanno affrontati subito, non l’indomani, ma il giorno prima, mi sono subito mosso.
Andai a Cesena, dove lei si trovava, feci il contratto, lo mandai in America e nel giro di quarantotto ore Fragale aveva in mano il contratto di Milva. Però quando l’agenzia concorrente ha saputo questa cosa, ha incominciato a minacciarmi con cose del tipo: quando verrai in America ci arriverai in verticale e ritornerai in orizzontale e cose del genere, così avvertii Fragale e lui mi disse ma no, non i preoccupare… Andammo a fare la tournée non con Milva, ma con Baudo, Baglioni, Iva Zanicchi, più altri artisti del posto e arrivammo a Philadelphia, in un teatro molto bello. Ricordo che, mentre eravamo alla cassa, arrivarono tre tizi che domandarono del signor D’Angeli. Io che ovviamente non avevo capito niente di come girava la ruota, e neanche me lo immaginavo, quando mi chiesero con cadenza siciliana: «Scusi signor D’Angeli, possiamo scambiare quattro chiacchiere con lei? È possibile?» Dissi di si perché ero uno sempre disponibile al dialogo. Mi portarono di sopra, alla galleria, e una volta arrivati li intensificarono le ingiurie, cominciarono a spintonarmi, iniziò una colluttazione (io non ho cercato di difendermi, ho cercato solo di parare i colpi). Due mi tenevano, uno mi menava e quando alla fine ero mezzo tramortito, uno mi puntò un’arma addosso. Ancora adesso, se ci ripenso, sento il cerchietto gelato sul collo. Alla fine non sono riuscito a discolparmi, forse anche perché parlavo – e parlo tuttora – poco l’inglese e loro parlavano l’italiano malamente, quindi non ci siamo capiti molto. L’unica cosa che ho capito è stata di non farlo più ed è una lezione che ho tenuto bene a mente!
Un’altra volta, in Australia, mi capitò una cosa ancora più brutta… Non ricordo esattamente, ma c’era uno che credo cercasse una sorta di pizzo. Praticamente era una famiglia di calabresi con manovalanza maori, gente del posto che faceva paura solo a vedersi, brutti come le scimmie e con un’altra cultura, gente che prima te mena e poi ti spiega il perché Io ero lì una volta con Bobby Solo e una volta con Pupo e credo che ce la siamo vista davvero brutta. Dovemmo pagare, ma comunque due sganassoni ce li prendemmo lo stesso io e il mio collaboratore.
Nella tua biografia il venditore di stelle ho notato che Elvis è un tema ricorrente, dall’acquisto di una Corvette di un modello uguale al suo, alla tua casa che spesso definisci la tua Graceland.
Cosa ha rappresentato per te Elvis?
Elvis è stato un punto di riferimento per me, per la mia generazione e per le due generazioni successive. Lui è stato a cavallo di tre generazioni. A tutt’oggi credo che non sia stato ancora scavalcato, emulato si ma scavalcato mai. Elvis era bello, era bravo, era il momento in cui il mondo aveva bisogno di cambiare e credo che lui rappresentasse quello che il pubblico di tutto il mondo voleva, ovvero cambiare, diventare più bello, diventare più bravo.
Ricordo che mi vestivo come lui: quando lo vedevo su un giornale con le camicie, con le scarpe, con le giacche, andavo subito o dal sarto o dal calzolaio a farmi fare tutto. Perché era – non so come definirlo – era il sogno di tutti, impersonava tutti quanti. Ancora oggi è uno che ha venduto milioni di dischi e continua venderli, la sua immagine nel merchandising ancora funziona. Credo che sia inarrivabile per tutti noi.
Cosa avresti dato per essere al posto del colonnello Parker? Ci hai mai pensato?
Si, assolutamente! (ride) Credo di aver scelto questo mestiere anche un po’ grazie a lui, non per emularlo, ma quando mi sono reso conto che come musicista non ero un granché ho capito subito che dopo Elvis c’era Parker!
Parker è stato sempre un genio, pensa a quello che è riuscito a fare… Pensa che gli ultimi anni Parker e Elvis non si parlavano. Comunicavano tra loro attraverso dei portavoce, ma avevano capito che non si potevano mollare l’un l’altro, perché era un business incredibile e importante.
Credo che l’intelligenza americana insegni qualcosa…
Nelle tue scuderie di artisti hai avuto i migliori: Bobby Solo, Umberto Tozzi, Loretta Goggi, Michele Zarrillo, solo per citarne alcuni. I loro giudizi ricorrenti, oltre a riconoscerti una grande dedizione e professionalità parlano di grande umanità. Ti riconosci in questo ritratto?
Ma si, credo proprio di si! Perché un impresario che non riesce ad avere umanità non riesce neanche a fare bene il proprio lavoro. È vero che, come dice qualcuno, bisogna avere molto pelo sullo stomaco, ma l’arte e la cultura vanno di pari passo con l’umiltà Le generazioni che dovranno arrivare non possono pensare di non avere l’umiltà perché chi non ce l’ha dura poco: non si ha la sensibilità per comprendere l’artista. È una sensibilità che uno deve avere per forza, se no non riesce a concretizzare il rapporto che si deve stabilire tra l’artista e il pubblico. L’impresario sta sempre in mezzo e l’impresario che non capisce, che non ha la sensibilità per capire l’artista e il pubblico, credo che vada poco lontano. Io sono felice di avere questa umiltà ma credo di averla ereditata dalla grande sofferenza che ho patito e dalla grande disgregazione che ho avuto nel crescere, che poi stata una ricchezza. Sono molto contento di averla avuta perché questa rinuncia e questa precarietà sono state la mia grande ricchezza,.
Qual’è stato l’artista col quale avresti voluto collaborare e con cui non sei mai riuscito? La tua occasione mancata?
Ho lavorato con Renato Zero, che è stato il primo ad insegnarmi molte cose. Mi ha insegnato a buttarmi, a tentare qualsiasi cosa, ad avere più coraggio. Credo che se avessimo continuato, col senno di poi e con le esperienze che ho acquisito dopo, mi sarebbe piaciuto molto occuparmi di lui. Perché lui all’estero non c’mai andato e lui uno che all’estero avrebbe potuto fare molta differenza, perché è un genio. Renato Zero non è un artista ‘normale’.
Quale artista, fra quelli che hai seguito, ti è rimasto più impresso, umanamente e artisticamente? Quello che secondo te stato il tuo capolavoro, il tuo fiore all’occhiello, l’artista che ti ricordi di più e che ti ha dato più soddisfazioni?
Le soddisfazioni me le hanno date un po’ tutti quanti. Loretta Goggi, le sorelle Goggi per un verso, Bobby Solo per un altro, Tozzi per un altro ancora… È come se ogni artista fosse un libro e quando cominci a sfogliarlo capisci molte cose ed è li che ti devi relazionare con quello che l’artista dice e fa. Li devi cercare di concretizzare il rapporto tra te e l’artista perché poi è il trasferimento che dovrai fare tra l’artista e il pubblico.
Tutti loro mi hanno lasciato qualcosa. Con ognuno di loro ho un rapporto che ancora dura, un rapporto di grande amicizia e anche di grande tenerezza se vogliamo, perché non è vero che gli artisti sono tutti senza cuore. Ci sono quelli che hanno un cuore più morbido o un cuore più duro però ognuno ce l’ha. Poi dipende da come ti poni, ma se riesci a stabilire dei contatti che abbiano un fondo di serietà e un fondo di sensibilità funzionano tutti.
Non funzionano quando non riesci a sintonizzarti, ma questo credo che accada in tutte le situazioni, non solo tra impresario e artista.
Che fine hanno fatto i manager, i talent-scout, quelli veri come te? Vedi ancora possibile lo sviluppo di una figura come la tua in un periodo in cui le sorti della musica sono affidate solo ai talent-show, dove il lavoro della musica, le prove, le serate ecc.. sembrano solo una perdita di tempo?
Nei talent-show io non ci credo molto, anche perché un modo come un altro per irretire l’artista. Lo fanno crescere in maniera veloce, senza una vera e propria cultura del sacrificio, la cultura del raggiungere gli obiettivi e guadagnarteli. Un artista che arriva in televisione, in tre o quattro mesi fa dieci passaggi televisivi in questo ambito, che cosa ha imparato? Il vero artista impara a essere tale quando riesce a concretizzare un rapporto con il pubblico, che deve iniziare in un momento in cui non sei nessuno e devi diventare qualcuno facendo strada. Mangiando polvere, avendo sofferenza, avendo contatto con gli altri, coi musicisti, con la gente che incontri. L’esperienza non può essere solo televisiva. Quando fai un pezzo che cosa racconti? Se non racconti un pezzo di vita che hai vissuto tu, come fai a raccontare? I giorni che passi in televisione a studiare? Non è mica un messaggio quello, anche se devo dire che Maria De Filippi ogni anno cerca sempre di migliorare. Però io credo che se un artista non ha un manager, non ha un produttore, una persona che vive con lui, non un mese o un anno, ma per un periodo lungo, credo che non vada da nessuna parte. Ed è un peccato che di manager ce ne siano sempre di meno, perché il manager è veramente l’altra metà dell’artista.
Un artista può essere bravo quanto vuoi, ma soltanto l’impresario o il manager riesce a dare quello che deve dare al pubblico. Perché noi abbiamo due percorsi giornalieri diversi: mentre l’artista dorme, io lavoro. Mentre l’artista si riposa io vado a cercare opportunità, è un doppio binario, uno fa una cosa e l’altro ne fa un’altra. È impossibile che uno faccia tutte e due. Ognuno deve fare il proprio dovere nel modo giusto, facendo ricerche, facendo dei tentativi, facendo qualsiasi cosa che sia importante per accontentare il pubblico, per creare nuove opportunità di lavoro.
Grandi soddisfazioni, grandissima carriera e anche grandi guadagni. Ma questo lavoro ti ha più dato o ti ha più tolto? E che cosa? Sia in un caso che nell’altro?
Ma sicuramente credo di essere stato fortunato. Non che io sia una mosca bianca! Io ho avuto solo più fortuna di un altro, più grinta di un altro e magari mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. Sicuramente sono un lottatore, un gladiatore, questo è certo. Non sono uno che aspetta che le cose accadano, gli vado incontro. Credo che questo lavoro mi abbia dato tanto, ma io ho dato la mia vita, ho dato tutto. Ho perso la famiglia, ho perso mia moglie perché ero molto preso dal lavoro. Però credo che, volendo dare ai miei figli quello che non ho avuto, io abbia fatto la cosa giusta, credo di essermi comportato sempre bene.
Quindi il bilancio è positivo?
Si, assolutamente, sarei pronto a ricominciare e rifarei le stesse cose e gli stessi errori. Anche perché in tutti i problemi che ho avuto mi sono sempre divertito tanto, tanto, tanto… Mi divertivo con poco, perché magari c’erano delle situazioni che sembravano delle cause perse e invece sono diventate delle opportunità importanti. Dipende da come affronti la vita: se la vita la affronti con il piglio giusto, con il senno di poi va tutto bene. Se tu ti incazzi con la vita, va sempre male. Devi sempre essere molto disponibile e altruista verso il prossimo. Devi sempre cercare di costruire e progettare. Quando smetti di progettare e costruire sei finito.
Dopo una carriera come la tua c’è ancora qualcosa che vorresti realizzare? Un progetto che hai in mente?
Tutto… Tutto! La mattina quando mi sveglio c’ho la testa che è un frullatore! Sto sempre a progettare! Mi piacerebbe fare qualcosa nel cinema, sempre in ambito musicale. Forse, prima o poi…
Chiudiamo con la tua biografia: come nasce l’idea di questo libro Il venditore di Stelle? Perché questa esigenza? È stata una tua idea o ti è stata proposta, suggerita?
Io sono uno che racconta spesso delle battute, essendo di carattere allegro e spontaneo. Quando vado in giro mi sono sempre divertito con le persone. Ovviamente poi vengono sempre fuori degli aneddoti o dei ricordi passati, e poi io li racconto bene, e tutti quanti mi dicevano: «oh, ma tu queste cose le devi raccontare! Perché non le scrivi?» Così quattro anni fa mi sono messo sotto e ho incominciato a prendere appunti. Devo dire che stato anche un po’ penoso, perché scavare nella mia vita, come in una sorta di psicoanalisi, non è stato facile. Mi ha aiutato un bravo giornalista che si chiama Luca Cacciatore, un giovane giornalista a cui davo i manoscritti da correggere. È stato un lavoro lungo, durato due anni e mezzo…
Quindi è partita da te l’idea?
Si, assolutamente, è stato il bisogno di raccontare. In ognuno di noi c’sempre il bisogno di raccontare e di parlare. Io dico sempre a un artista che non scrive e che non compone: se tu parli e pensi, perché non puoi scrivere? Se pensi delle cretinate, scriverai delle cretinate. Se parli e dici delle baggianate, scriverai delle baggianate. Ma se tu fai attenzione a parlare e a pensare, magari farai attenzione anche nello scrivere Così tanti hanno cominciato a provarci e sono andati bene!
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‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
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