Dario Salvatori: giornalista, critico musicale, conduttore radiofonico, scrittore e nientemeno che ‘Responsabile artistico del patrimonio sonoro della RAI’. Avremo modo di approfondire tutte queste competenze nel seguito dell’intervista. Ma chi è davvero Dario Salvatori quando si spengono i riflettori e torna a casa?
Beh, sicuramente rispetto a tutte le cose che hai detto è un appassionato! Nonostante sia passato tanto tempo da quando ho iniziato, faccio questo mestiere con grande energia, con grande entusiasmo e voglia di farlo. Leggevo da qualche parte, qualche giorno fa, che le persone che riescono a fare quello che sognavano da bambini e a tramutarlo nel loro lavoro sono l’uno per cento.
Quindi io sono felice di stare in questo 1 % (ride).
Ma al di là di questo credo che questo può essere il mestiere più bello del mondo se non perdi questo stimolo, questa passione. Se no diventa un mestiere banalissimo e anche un po’ inutile, secondo me. Chi sono quando torno a casa? Sono esattamente quello che sono fuori, più o meno… Nel senso che le passioni rimangono le stesse, così come gli amici.
E poi il fatto che io non abbia ‘figliato‘ e che non mi sia sposato alimenta anche questo vago senso di libertà e di zingarismo che, diciamo, un po’ ci deve stare.
Hai iniziato ad affacciarti al mondo dello spettacolo verso la fine degli anni sessanta come spettatore, quello che in gergo si chiamava ‘figurante’, in trasmissioni prima radiofoniche, come Bandiera Gialla, in seguito televisive, come Per voi giovani. Poi, a fine degli anni settanta, L’altra domenica che all’epoca era davvero all’avanguardia nel panorama televisivo. Partecipi a Domenica in come opinionista e critico musicale. Ma forse è in Quelli della Notte di Arbore (dove viene ritagliato uno spazio ad hoc per te, seppure in tono umoristico e grottesco, proprio grazie alle tue conoscenze musicali e artistiche) che emergono tutte le tue peculiarità di esperto. Cosa ricordi di quel periodo di grande fermento artistico-musicale?
Quando hai capito o deciso che la musica, in qualità di esperto-critico, sarebbe stata il tuo mestiere? È stata una scelta ponderata, mirata, un’evoluzione naturale o – come si dice a Roma – ti ci sei trovato?
Come dicevamo prima, la passione deve essere alla base di questo, perché non ti puoi trovare nel posto sbagliato. Picasso diceva : «Non si cerca, si trova», questa è la differenza fondamentale.
Poi scusa, ti vorrei correggere… A Bandiera Gialla noi non eravamo figuranti. I figuranti sono una categoria di persone che vanno a battere le mani e che vengono pagate. A Bandiera Gialla noi eravamo ragazzi appassionati a quel genere di musica e non eravamo pagati, andavamo là principalmente per ballare e per divertirci e per ascoltare dei dischi che, nella maggior parte dei casi, non erano stati ancora pubblicati in Italia. E poi eravamo anche l’elemento coreografico portante della trasmissione che, senza questo pubblico, dal vivo sarebbe stata altro.
Tra l’altro, come saprai, tra questi ragazzi ne sono usciti alcuni che hanno fatto un po’ di strada, da Roberto D’Agostino a Renato Zero, da Loredana Bertè a Romina Power. Insomma, un elenco lunghissimo. È quindi è stata una bella ‘nidiata‘ secondo me.
Quello degli anni sessanta è stato il momento che ha cambiato l’Italia. Quindi la musica faceva parte di questo fermento e, anzi, ne è stata motivo di spinta e di grandi cambiamenti.
Riferendomi al resto della domanda, negli anni settanta io iniziai a collaborare proprio con Renzo Arbore a Per Voi Giovani. Fu il mio primo contratto RAI nell’ultima edizione del 1970. Quindi sono passati quarantacinque anni.
E poi arrivò la televisione non con Arbore, ma con Maurizio Costanzo in un programma che si chiamava Scena contro Scena e che era un programma di spettacolo che andava in onda in prima serata su RAI Uno. Nel ’76 arrivò L’Altra Domenica che era la risposta già ‘Arboriana‘ a Domenica In: infatti uno era su RAI Uno e l’altro su RAI Due. Anche là un’altra ‘nidiata‘ di nuovi personaggi e l’idea di essere ‘altro‘, di promuovere quello che ci piaceva. Questo poi ebbe la sua consacrazione nel 1985 con Quelli della Notte, dove ci fu questa geniale idea di Renzo Arbore di esaltare le peculiarità di ognuno di noi e di farci impersonare noi stessi.
Alla base sicuramente c’era del fermento, ma questo appartiene ai grandi temi scomparsi dalla televisione. Prima di tutto l’improvvisazione che non esiste più. Io ti posso dire che a Quelli della Notte il 90% di quello che succedeva lì era improvvisato. Di preparato c’erano soltanto i pezzi, le canzoni, perché andavano un po’ provate. Ma per il resto nessuno sapeva quello che sarebbe successo. Oggi anche quello che ci arriva come improvvisato non lo è, a cominciare dal numero uno di oggi che è Fiorello. Quando faceva RAI Due a via Asiago, io scendevo sotto e lo andavo a trovare e lui mi salutava e aveva dei copioni che erano delle risme così.
Quindi sì, si è perduto quel fermento, questo è vero, ma spero in favore di altre cose. Non ti posso dire quali perché non lo so, però forse ogni cosa è legata a un’epoca. Io sento molto l’omologazione, che è il vero danno di questo periodo.
Quanto è cambiato, secondo te, il modo di divulgazione della musica negli anni, dai tuoi esordi ai nuovi media, per esempio internet? Quanto hanno cambiato il modo di fruizione di questa forma d’arte? E quanto, come e in cosa è cambiato, se è cambiato, l’ambiente musicale italiano.
È cambiato tutto, perché l’apparato industriale musicale si è sgretolato per motivi che poco hanno a che vedere con ‘l’artisticità’, ma molto con il marketing, con l’aspetto industriale. Quindi le case discografiche si sono indebolite, i dischi sono crollati nelle vendite e passa questo messaggio, soprattutto per i giovani, che la musica sia liquida, che la musica sia gratuita. Non è che non si comprano i dischi perché c’è una disaffezione nei confronti del formato. Ci sarà anche quella, io per esempio ho sessantamila dischi e ho un piano dedicato solo al vinile! Oggi basta entrare nella casa di un ventenne o di un diciottenne e tutto questo non c’è, c’è altro.
Questa potrebbe anche essere una buona notizia. La cattiva notizia è che si sono abbassati il gusto e la competenza musicale e la colpa di questo è delle radio, di tutte le radio, e anche il grado di coscienza di fare entrare la musica nella propria vita. Per noi era un fatto fondamentale, al punto di delineare e di coniugare un pochino, secondo le nostre aspettative, le nostre vite. Oggi credo che questo sia meno richiesto.
Questo ha fatto sì che l’assetto musicale cambiasse. Quello che io denuncio maggiormente è l’ignoranza musicale che, ripeto, è colpa delle radio che trasmettono molta robaccia. Loro si difendono dicendo che trasmettono quello che vuole il pubblico, ma questa è una sciocchezza, perché non c’è contro-risposta… Provate a fare altro, poi vediamo che succede! Qual è la vostra indagine su quello che vuole il pubblico? È il marketing? Eh, non va bene!
Con questo non voglio neanche dire che le radio (che non a caso si chiamano ‘commerciali‘) debbano fare della didattica e della formazione musicale, perché non è il loro mandato. Non lo fa la RAI, che è servizio pubblico, figuriamoci se possono farlo loro. Però tutto questo crea una disparità di valori nella musica. Una disparità che in questo momento è pazzesca. Io non ricordo un’altra epoca in cui le acque erano così stagnanti e i valori del talento e delle qualità così sopiti come oggi.
Approfondiamo questo punto. Essendo uno dei maggiori esperti e conoscitori della musica dell’ambiente italiano è così davvero in crisi l’industria musicale italiana? È finita l’epoca delle case discografiche, delle grandi major? O è una fase di transizione, in attesa di una riorganizzazione dell’industria musicale?
È finita l’epoca delle major anche se, notizia di ieri, pare che in America quest’anno si siano venduti otto milioni di vinili. Ma a parte che otto milioni non è una grande cifra, se la vogliamo dire tutta otto milioni li vendeva un artista da solo! Michael Jackson o i Bee Gees o i Pink Floyd ai tempi d’oro vendevano trenta milioni di un loro solo disco. Quindi otto milioni di tutto l’apparato, insomma, io me la terrei segreta questa notizia!
Comunque è cambiato questo tipo di apparato, ma ripeto, questa è tecnologia e non saremo certo noi a fermare la tecnologia. Prima i supporti duravano trenta o quarant’anni. Il 78 giri è durato trent’anni, il 33 giri cinquant’anni, il CD è durato venti, venticinque. Poi l’mp3 e così via… Dureranno sempre meno, fino all’abbattimento totale, che è il regime che abbiamo oggi.
Ma io non voglio parlare di tecnologia, io voglio parlare di contenuto, di quello che c’è dentro a questa cosa nera che gira, oppure a questa cosa che chiamiamo liquida e che ci scarichiamo. A me interessa quello, non l’aspetto fisico. E quello che c’è dentro spesso è scoraggiante. Questa ovviamente è la superficialità dei giovani che vedono la musica non più come una scelta di vita, come una forma di aggregazione. Questo non c’è più. Non è più una risposta, non si cercano più risposte.
Noi volevamo essere delle rockstar, ci vestivamo come rockstar. Io mi vestivo copiando le copertine dei 33 giri. Ora tutto questo non c’è più, non so se sia stato sostituito da qualche cosa o da nulla. E poi c’è questo luogo comune, questa cantonata, che la musica possa essere gratis. Vorrei ricordare che c’è stato un altro periodo, gli anni ’70, in cui stava per passare il messaggio che la musica fosse gratis e che fu un periodo di scontri, di consapevolezza politica ecc…Ma fu un periodo molto triste che fece cancellare dalla geografia dei concerti internazionali l’Italia, per esempio. A causa degli incidenti che accadevano e per quello che succedeva.
Il fatto che la musica sia gratis… E perché la partita non è gratis? Perché nessuno protesta quando si tratta di pagare il biglietto per andare a vedere la partita? O per andare da Ikea? O per qualsiasi altro bene di consumo? Chiediamoci questo, più che dire se è crollato. È crollato perché la gente se lo acchiappa gratis altrove, questo è il problema. Qualcuno ci sta imbrogliando, questa è la mia sensazione.
A questo punto, secondo te, quali pensi che siano (se ce ne sono) le differenze tra l’ambiente discografico italiano e quello internazionale? Penso ad esempio a quello britannico e statunitense su tutti…
Intanto i numeri: sono mercati che hanno avuto una crisi. Sono usciti dalla crisi e oggi danno dei segnali buoni. Poi ovviamente, rischio di dire una banalità, ma c’è il fatto che l’inglese non è l’italiano, quindi questo aumenta e decuplica il mercato. Poi c’è il fatto che ci siano delle vere rockstar e dei veri personaggi di riferimento, che secondo me in Italia non abbiamo. Io non ritengo che un Ligabue o un Vasco Rossi possano essere personaggi di riferimento. Però per qualcuno lo sono, quindi beati loro.
Per ‘personaggio di riferimento‘ intendo qualcuno che possa entrare nella tua vita, qualcuno che tu possa mitizzare. Io ho un buon rapporto con il mito. Il mito ha salvato molte nostre vite. Il mito va coccolato, va riscaldato e va anche rinnovato. Io di miti sostenibili ne vedo pochi in questo momento. In Italia nessuno.
La differenza tra l’ambiente inglese e quello italiano sta anche nel modo di vivere la musica. Io conosco bene soltanto due città, New York e Londra, che sono due città dove vado abitualmente, poi per il resto, sono un viaggiatore ridicolo, ma queste due le conosco bene. Lì i giovani vivono la musica, la amano, la loro vita è sonorizzata dalla musica, basta vedere anche solo l’aspetto commerciale della grande distribuzione e dei grandi magazzini. Lì c’è musica scelta bene, che ti aiuta a sonorizzare la tua vita. Inoltre c’è un rapporto con i piccoli locali diverso da quello che abbiamo noi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti il discorso è ancora più complesso. Prendiamo ad esempio gli Stati del sud, dove ci sono delle stazioni radiofoniche che ancora si occupano di una musica che le major non hanno mai preso – oggi come ieri – in grande considerazione. Quindi è un mercato straordinario, enorme, che ha avuto la sua crisi, ma è ripartito alla grande.
Del resto questo ha a che vedere anche con il sociale. Sarà capitato, a te come ad altri, di andare ad un concentro a Londra e di vedere che a mezzanotte o all’una tutti i ragazzi scappano per prendere l’ultima metropolitana per tornare a casa. Perché a Londra trovare un ragazzo di diciotto anni che ha una sua auto propria è rarissimo.
In Italia facciamo il contrario: chiediamo la musica gratis, però ogni diciottenne ha la macchina personale che quell’imbecille del padre gli ha regalato. Questo cambia tutto l’assetto sociale, è di questo che dobbiamo parlare. Nei paesi anglo-americani se un ventenne vive in famiglia non è considerato un bamboccione, come diciamo noi. Lì viene l’assistente sociale, lo intervista e subito diventa un caso. Qua se un trentenne sta in famiglia è un mammone… No! È un imbecille! È un sottosviluppato, è diverso… E da tutto questo ci sono le derive, le differenze di cui stavamo parlando.
Qual è il rapporto di Dario Salvatori con i talent show?
A me capitò di fare il primo talent che fece la RAI anni fa, quello vinto da Fogli, neanche mi ricordo come si chiamasse… Era a metà strada tra talent e reality, cioè i due estremi. C’erano dei cantanti famosi. Se la strada è quella non saremo certo noi a poter fermare quest’onda dei talent.
Però, dalle indicazioni che posso avere io e dal mio punto di vista, vedo che sono serviti soprattutto a rilanciare le carriere di personaggi in difficoltà, chiamandoli in qualità di giudici e ad aiutare pochissimo i partecipanti. O meglio, ci sono stati personaggi dimenticati, personaggi che non battevano più un chiodo, personaggi in serie difficoltà che, facendo da giudici in un talent, hanno visto rilanciare le loro carriere.
Sarebbe stato interessante mettere questa energia sui giovani e non per rilanciare qualcuno, in un mestiere che poi forse non è neanche un mestiere. Invece vedo che, per chi vince e per chi partecipa, c’è una notorietà effimera legata a quel momento e poi si sparisce. Io vorrei che qualcuno mi dicesse che fine hanno fatto i vincitori, o anche solo i partecipanti, di X Factor di sette anni fa, per esempio.
Pensi che questo sia legato anche alla qualità dei personaggi… ?
Questo è legato al meccanismo. Il meccanismo che, ripeto, privilegia la figura del giudice che ci siamo inventati e che è un ruolo deformante di questa cosa. Fare il paragone con il passato è complicato, perché è troppo lontano e il riferimento è tutto cambiato. Però Castrocaro era sicuramente un talent. Era una manifestazione che si svolgeva in un punto, c’era la televisione e lanciava dei giovani cantanti. Tra questi c’erano dei ‘brocchi‘ di cui non abbiamo più sentito parlare e poi c’erano Caterina Caselli, Iva Zanicchi fino ad arrivare a Zucchero e a Laura Pausini. Quindi c’era un quarantennio di talenti. Ora questo non si può dire per i talent. Perché questi talenti che ho nominato hanno legato la loro vita totalmente a quello. Ora, se io dovessi dire se un vincitore di questi talent riesca a fare questa professione per tutta la vita, non mi sento di dirlo… E forse neanche lui. E infatti si vede che hanno questo atteggiamento arrembante, cioè di ramazzare tutto quello che possono perché sanno che magari tra tre anni non saranno qui a farlo. E questa non è una buona notizia.
C’è stato anche il caso del ragazzo italiano che è stato scartato in Italia e poi è andato a Londra e sembra che adesso lo vincerà..
Si, ho seguito, ma sono programmi omologati in tutto il mondo e che hanno un format. Ma forse – e voglio rasentare il cinismo – è giusto così. Penso che, se il mondo è diventato precario, è giusto che questi siano precari. Prima trovavi un lavoro a vent’anni e poi era il tuo lavoro per tutta la vita, ma se oggi non è più così per un bancario o per un parastatale, perché dovrebbe esserlo per un cantante? Se è precario quello, che era l’estrema propaggine della sicurezza e non lo è più, allora la certezza è giusto che non ci sia neanche per un cantante (che per antonomasia è il mestiere più rischioso del mondo). È un grande cinismo, insomma. Un cinismo di cui, secondo me, qualcuno si avvantaggia.
Non è che voglia fare della blanda sociologia, ma io ti posso dire che di questi cantanti che vengono così esaltati e così omaggiati in quei minuti, poi si perde traccia. Allora, l’analista costa caro, le famiglie si indebitano… Io capisco che ad un autore televisivo queste cose non importano un fico secco, perché lui deve ottenere un ascolto che alle dieci del giorno dopo gli dia un dato e basta. Poi di che fine fanno questi ragazzi a lui non gliene frega nulla. E questo è altrettanto cinico, perché poi qualche volta vanno nelle cronache nere o ci comunicano che hanno aperto una merceria.
Facciamo un piccolo salto indietro: 5 luglio 1954. Elvis pubblica il suo primo singolo, That’s All Right Mama. Quest’anno ricorre il sessantesimo compleanno di questo evento che è considerato universalmente l’anno zero del rock’n’roll. Sei d’accordo con queste affermazioni? Che cosa ha rappresentato il rock e Elvis per te e per tutte le generazioni – non solo di musicisti – che sono seguite?
Quello che tu indichi è realmente il momento zero, insieme ad altri tre o quattro che comunque hanno sempre a che vedere con il ’54 e con il ’55. È giusto, nel senso che è il momento in cui questo tipo di musica, che già esisteva soprattutto nelle comunità black, ma in modo un po’ sotterraneo (infatti i dischi si chiamavano race records perché era considerata musica di razza, musica nera e basta) grazie alla radiofonia molto attenta, grazie al cinema che si affianca immediatamente al rock’n’roll e a dei personaggi sicuramente di grande talento e in grado di incuriosire il pubblico giovane bianco, genera questo mixing che diventa esplosivo.
Le confluenze sono più di una: c’è talento, grande individualità, l’idea di sdoganare la musica nera e di farla diventare popolare verso il pubblico bianco e grandi pezzi storici. E quando un’epoca sforna questa confluenza di casi non è poco.
Infatti Sam Philips disse: «Voglio trovare un bianco che canti come un nero..»
E lui lo trovò… (Elvis n.d.r.)
A proposito di rock’n’roll, all’inizio del ’55 Variety, considerata la bibbia dello spettacolo a quel tempo, scrisse: «è solo una moda passeggera, sarà passata entro giugno». Cosa ne pensi?
Loro difendevano il loro, ovviamente. Tutto il ‘900 è fatto di queste cose. Prendiamo la storia del jazz che c’era prima. Quando negli anni trenta arrivarono le big band di swing, da Tommy Dorsey a Benny Goodman, i piccoli gruppi, come quelli di Armstrong e dei solisti, entrarono un po’ in crisi, perché per lavorare bisognava avere una grande orchestra, che erano quelle più popolari, quelle che vendevano dei dischi. Poi però finì anche il momento delle grandi orchestre perché costavano troppo e perché i solisti volevano suonare anche un altro tipo di musica e non a caso negli anni ’40 arrivò anche il be bop, che privilegiava i piccoli gruppi, i quartetti, i quintetti.
Quindi è nell’evoluzione della musica dire che un fenomeno è passeggero. Il rock’n’roll non fu un fenomeno passeggero, a mio giudizio, perché toccò, oltre all’evoluzione della musica – e fu sicuramente una ribellione – gli aspetti sociali del mondo giovanile, che peraltro neanche esisteva, dato che la figura del giovane nasce con il rock’n’roll. Quindi questa fu una grande intuizione.
Si era creato un meccanismo che toccava innanzitutto l’aspetto economico, perché si capì che i ragazzi avevano una disponibilità economica, per il benessere che era arrivato e perché gli anni cinquanta furono un momento di grande ripartenza. Ci furono dei grandi cervelli, ma anche dei grandi talenti che riuscirono a mettere le mani in tasca ai ragazzi, al cosiddetto ‘pocket money‘ dei ragazzi e soprattutto riuscirono a capire che c’era questa disponibilità. In Italia tutto accadde con grande ritardo, il pocket money non ci sarebbe stato, però qualche tempo dopo arrivò anche da noi.
Credo che una rivoluzione musicale, per essere tale, per essere veramente ribelle, debba toccare più cose, perché se tocca solo l’aspetto sonoro non ce la fa. E infatti ecco che noi viviamo in un momento di lunga assenza di ribellione musicale. Non è stata certo una ribellione musicale il grunge, non lo è stato il rap, che passa in Italia come il nuovo che avanza, mentre è un genere che ha quarant’anni. Io non ho mai sentito un genere nuovo che resiste quarant’anni, neanche la dodecafonia, che è la grande rivoluzione del ‘900, è stato il nuovo per tanti anni. Ma neanche il free jazz, che aveva dei talenti straordinari. Quindi anche qui qualcuno ci imbroglia… Il rap non è il nuovo che avanza, sta lì da quarant’anni, poi se vogliamo fare finta che non sia così, va beh…
Per chiudere questa parentesi sul rock’n’roll secondo te è morto davvero o è solo in letargo?
Dipende da ciò di cui parliamo. Il rock’n’roll propriamente detto è qualcosa che è entrato nel vintage, è entrato in uno stile di vita e ha creato una forma di indotto molto interessante, che a me personalmente affascina molto perché sono un gran frequentatore di tutto questo. Ha creato dei festival specialistici, ha creato dei canali, ha creato la proliferazione di scuole di ballo, di abbigliamento mai perso di vista e di macchine d’epoca. E questo, oltre ad essere molto divertente, a promuovere ancora e a ricordare questa cultura e questa musica americana degli anni ’40 e ’50, ti fa ascoltare roba buona. Chissà perché noi lo chiamiamo vintage, termine che è usato solo in Italia, mentre nel resto del mondo non si usa? Tu ti chiedi: perché uno di vent’anni deve impazzire per Eddie Cochran? Perché sente che lì nessuno lo sta imbrogliando, acchiappa la cosa vera… E quello è intuito. I giovani, che sono ingannati quotidianamente dalle radio, se gli metti una cosa che ha un’energia giusta – magari quella originale, ma anche quella rifatta da qualcuno – la acchiappano, gli arriva. E Il motivo è questo secondo me. Quindi c’è questo fenomeno che non è così ristretto come si pensa perché i campi sono tanti, quindi ognuno poi si sceglie il suo. Però c’è un bel fermento e non soltanto in Italia.
Ogni momento del rock è stato accompagnato da uno stile di vita, ma anche da un modo di essere, che andava dai capelli ai vestiti. Ora non c’è più un maestro di stile e allora si cerca altrove. Così magari si acchiappa qualcosa dal burlesque (che a sua volta è comunque una ricostruzione), qualche cosa dal rockabilly, qualcosa dal hillbilly, dal country, da tutte queste cose che hanno una fiera e importante origine.
Avendo intervistato e conosciuto i più grandi artisti, c’è qualcuno che ha lasciato un segno particolare, che ti ha impressionato favorevolmente e per quale motivo?
E invece quello che avresti voluto conoscere e intervistare e non hai mai incontrato? L’occasione mancata insomma?
Io sono stato fortunato perché ho iniziato a fare questa attività molto giovane e ho avuto la capacità e la fortuna di ascoltare innanzitutto dei personaggi che magari quelli della mia età non hanno avuto perché hanno iniziato un po’ tardi. Ma non soltanto nel rock. Io ho visto dal vivo Armstrong, Duke Ellington, i geni del ‘900, ma anche personaggi a margine di tutto questo: Joséphine Baker l’ho vista dal vivo ed è stata una grande emozione, o Marlene Dietrich. Sono personaggi molto carismatici che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo e di intervistare.
Le impressioni più forti le ho avute da quelli che sono stati, e in parte sono ancora, i miei miti per esempio gli Stones, che ho visto anche nel giugno scorso a Roma e che continuano ad essere la mia band preferita.
Hanno fatto veramente un patto col diavolo allora?
Hanno fatto un patto col diavolo perché non hanno mai tradito il pubblico e ci danno anche delle grandi dimostrazioni di saper perdurare. Io credo che gli Stones riescano a durare così perché loro avevano degli ottimi gusti musicali da adolescenti che non hanno mai tradito. Questo è il loro segreto. Cosa che non si può dire per gli adolescenti musicisti di oggi, che non hanno ottimi gusti musicali perché hanno dei miti balordi. Se tu hai come mito Chuck Berry o Jimmy Reed o Bo Diddley, non sono miti balordi. Altrimenti non vai lontano.
Beatles o Rolling Stones?
Rolling Stones tutta la vita. Però naturalmente ho amato e amo anche i Beatles, che pure sono riuscito a vedere dal vivo e dei quali quest’anno ricorre il cinquantenario. Quindi ci sono già festeggiamenti da tutte le parti e si faranno grandi cose…
Secondo te questo dualismo da dove nasceva? Perché c’è stata questa divisione così netta?
Perché uno che ascoltava i Rolling Stones non poteva ascoltare i Beatles?
Secondo me loro erano amici e questo ce l’hanno dimostrato in duemila occasioni, in scambi di favori vari, ma erano anche rivali; erano rivali i loro management soprattutto, quindi le loro case discografiche. E a questo proposito, come sai, gli aneddoti si sprecano. La Decca mise sotto contratto gli Stones dopo che aveva cacciato i Beatles. E il contrario vale per gli Stones. Ci sono tanti aneddoti a proposito.
Le origini erano le stesse: il rock’n’roll americano degli anni ’50, i loro miti erano quelli, ma gli Stones propendevano più per l’aspetto black di queste origini, mentre i Beatles propendevano di più per l’aspetto bianco. I Beatles non hanno mai fatto cover di Bo Diddley o di Jimmy Reed, gli Stones sì. I Beatles erano più vicini a Buddy Holly, erano più il fiero rock bianco, insomma…
E poi c’era questo aspetto sociale, che fu anche quello in parte una trovata di management, ma in parte era vero, era proprio la loro ambizione e cioè che i Beatles erano ‘working class‘, erano dei ragazzi poveri di Liverpool, città tostissima, dove il dopoguerra arrivò alla soglia degli anni ’60.
Gli Stones invece erano ‘middle class‘. I Beatles ‘working class‘ giocavano a fare i ragazzi pulitini della ‘middle class‘, quegli altri erano ‘middle class‘ e facevano i delinquenti, e questo è curioso!
Torniamo un attimo all’importantissimo ruolo di responsabile artistico del patrimonio sonoro della RAI. Cosa significa per te? Sei più onorato o più preoccupato di avere la responsabilità della gestione di questo immenso patrimonio? Ti senti il detentore, il custode della storia artistica italiana che è poi ciò che il patrimonio artistico della Rai rappresenta?
Questo lavoro si divide in varie fasi: c’è la fase un po’ all’Indiana Jones che è quella della scoperta di ciò che è negli archivi RAI. Poi una volta scoperto questo materiale, che sapevi che ci doveva essere per forza, si tratta di occuparsene, dal restauro alle pulizie varie, poi di divulgarlo e poi possibilmente, come abbiamo fatto noi, di metterlo in vendita.
Per esempio per Radio Scrigno, così si chiama questo progetto, io ho trovato delle registrazioni storiche – che erano nella radiofonia e che la RAI non si ricordava più di avere – di grandi personaggi.
Immagina ad esempio Louis Armstrong che suona dal vivo a Firenze nel ’52, o Juliette Gréco che canta a Roma nel ’51, Frank Sinatra che canta con l’orchestra Trovajoli nel ’53.
Queste cose abbiamo potuto pubblicarle perché sono di proprietà RAI, quindi nessuno ci ha potuto dire nulla e abbiamo fatto una collana di venticinque cofanetti con queste gemme assolute che riguardano queste cose, ma anche altri generi musicali, le grandi orchestre, per esempio Luttazzi, piuttosto che Canfora o Piccioni o lo stesso Trovajoli. O anche folk, ad esempio Matteo Salvatore. Cose di vario genere che secondo me andavano pubblicate e noi lo abbiamo fatto con grande gioia.
Credo che la stessa cosa si dovrebbe fare per l’aspetto televisivo, ma lì c’è il problema dei diritti, che è un pochino più complicato. Perché la radiofonia è più vecchia della TV, però in co-edizione o in accordo con qualcuno si può fare e si farà.
Hai detto che sei stato fortunato perché questo è il mestiere che volevi fare da bambino. C’è stato un momento in cui hai capito di avercela fatta?
Di solito uno ha queste convinzioni quando si sistema, un verbo che è scomparso della nostra cultura; i giovani non sanno neanche cosa vuol dire. Sistemarsi vuol dire ad esempio essere assunto, avere lo stipendio fisso, sposarsi ecc.. Io queste tappe le ho aggirate, forse mi si sono anche presentate davanti, ma le ho aggirate. Poi sai, come dicono gli allenatori di calcio, i conti si fanno alla fine, però sono contento così. Questa sensazione di appagamento non mi riguarda assolutamente. Ma anche adesso che non sono più giovane non ce l’ho. L’importante è fare quello che uno vuole e che uno desidera. Che vuol dire avercela fatta? Vuol dire che appari in televisione e la gente ti ferma per la strada? È banale… E crea ancora guai. Io, fortunatamente, avendo iniziato a fare televisione molto giovane, non ho avuto la sensazione della cosa. Ma a chi gli arriva fra capo e collo, improvvisamente, crea dei danni.
E poi questa notorietà… Bisogna vedere come la gestisci e cosa c’è dietro a questa notorietà. Se tu fai quello che faresti a casa e che faresti anche se non ti pagassero, non hai la sensazione di avercela fatta, fai quello che fai. Faccio un esempio relativo alla mia attività editoriale, di uno che ha pubblicato trentacinque libri: io non ho avuto una grande carriera scolastica, diciamo che è stato anche un fallimento, perché io a scuola facevo altro mentre c’erano le lezioni. Io mi portavo del ‘lavoro‘ a scuola, mi portavo i giornali che leggevo e che compravo la mattina (cosa che faccio ancora adesso) e anche i giornali stranieri. Poi ero il segretario del fan club dei Rolling Stones, quindi mi arrivavano lettere e dovevo rispondere. Quindi avevo una mattinata piena dietro al banco e non potevo curarmi di ciò che succedeva nella cattedra. Poi quando mi rimaneva qualche ritaglio di tempo facevi i poll, i referendum. Vedevo che i giornali stranieri li facevano e allora io me li facevo da solo: facevo il miglior clarinettista, il miglior sax tenore, il miglior cantante bianco, il miglior piccolo gruppo. Facevo cinquanta o sessanta categorie e sceglievo i ‘top five‘. Questo richiedeva molto tempo e poi andavano rinnovate. In seguito tutto questo è finito nei miei libri, nel senso che a scuola non mi pagava nessuno (anzi, mi bocciavano) ma poi sono riuscito a farne dei veri libri. Ho trovato degli editori che mi hanno pagato poco, però quella è una cosa che ho fatto con grande passione. Qui non c’è molta attenzione per questi libri perché dicono che ‘scadono‘ presto e vanno male come risultati. Anche qui ognuno ha le sue idee. A me piace questo tipo di editoria e detesto l’editoria dove ci si copia uno con l’altro e che ti porta a pubblicare trenta libri l’anno su Ligabue, su Vasco Rossi, sugli U2. I libri son sempre quelli… Secondo gli editori sono quelli che il pubblico vuole e qui ritorniamo al discorso delle radio.
Allora io preferisco essere un po’ controcorrente e fare libri, ad esempio, sulla storia del Folkstudio (che è un libro che ho scritto tanti anni fa) oppure sui balli giovanili. Sono cose che scoraggiano un po’ l’editore, ma che a me danno soddisfazione e dalle quali magari traggo delle trasmissioni o dei file per qualche cosa.
Purtroppo anche l’editoria cartacea, come sai, non se la passa tanto bene. Quindi bisogna stare attenti a veicolare le proposte con molta attenzione. Io mi ritaglio degli spazi ‘anomali‘. Per esempio ho una collana di un editore in cui ogni libro è dedicato a una canzone. È, se vogliamo, un’esagerazione, perché si tratta di scrivere duecento pagine su una canzone, in un certo senso è un’aberrazione, però io mi diverto anche così.
La domanda che pongo sempre alla fine è questa: qual è secondo te l’altra faccia della musica?
L‘altra faccia della musica è quella che magari noi addetti ai lavori un po’ conosciamo – perché la nostra attività ci porta l’altra faccia della musica o l’altra faccia di chi fa musica – e che non divulghiamo. Per paura di ritorsioni, perché dobbiamo essere amici di tutti. Anche qua l’addetto ai lavori e il giornalista radiofonico hanno delle grandi colpe.
L’altra faccia della musica, se riferita all’altra faccia di chi fa musica, cioè dei personaggi più popolari, non è una bella faccia e a divulgarla non ci si guadagna nulla, ma ci si fanno solo nemici. Io qualche volta l’ho fatto e sono finito sul libro nero di qualcuno. Avendo debuttato alla fine degli anni sessanta c’ero prima di tutti quelli che oggi sono popolari o anche di quelli che sono partiti con me.
Io mi vanto di non avere neanche un numero di cellulare di un cantante, nè io l’ho chiesto nè loro me l’hanno dato. Questo è un grande fiore all’occhiello che ho e che mi dà un senso di libertà estrema perché, a parte rarissime eccezioni, non ho grandi amicizie personali o grandi frequentazioni con questi qua e questo mi dà molta libertà. Sono dei personaggi vendicativi che vedono il giornalista come un loro dipendente e il rapporto con loro dovrebbe andare dall’adorazione in su. Io non sono portato per questo!
Per restare sul tema dell’editoria, ci sono in giro tutti questi libri di interviste ‘in ginocchio’ a qualcuno… Sono loro che dovrebbero intervistare me, perché ne so più di loro!
O fai l’Instant Book del fenomeno momentaneo, tipo One Direction, allora lì intervisti loro perché è un libro commerciale, ma intervistare un cantautore… Io non so come certi colleghi facciano questo, perché poi è ovvio che è il personaggio che sceglie te.
Perché a me non mi scelgono mai come intervistatore? Perché sanno che non troverebbero trippa per gatti.
È comunque un’intervista in ginocchio. Anche dei personaggi immacolati della storia del cantautorato italiano hanno avuto degli atteggiamenti meschini nei miei confronti. Ricordo Fabrizio De André che fece quella mitica tournée con la PFM, che forse è una delle cose migliori che ha fatto, perché non uscì con la sua chitarrella, ma con un gruppo serio. Io a quell’epoca scrivevo sul Messaggero e feci un articolo ovviamente molto buono, accennando però a quello che aveva fatto De André quell’estate, quando era andato alla Bussola di Viareggio. Io credo che De André abbia seminato in certo modo. Non mi pare che La Bussola, dove c’era il divano dei Moratti, il divano degli Agnelli ecc. – anche se suo padre apparteneva a questa nomenclatura e pagò il famoso riscatto – fosse il suo pubblico. E invece lui andò là, a omaggiare questi signori che avevano pagato questi biglietti ‘esagerati‘ e mi ricordo che tutti gli chiesero «Ma come? De André alla Bussola?» e lui disse che doveva fare un investimento serio in Sardegna all’Agnata, perché doveva farla diventare un rifugio, una specie di agriturismo, quindi gli servivano dei soldi.
Io scrissi sul Messaggero questa cosa insieme alla recensione e quando uscì questo disco (si può vedere ancora oggi con tutto il collage dei ritagli) si fece in modo di coprire questa parte in cui io parlavo della storia della Bussola e quindi di pubblicare il mio articolo sul Messaggero perché era comunque una testata autorevole, però il collage non permette di fare queste cose. Stiamo parlando di De André, che era mio amico, per carità, e stiamo parlando di un numero uno, figuriamoci a scendere!
Qualche amico, ovviamente, in quaranta/quarantacinque anni di attività l’ho avuto anch’io. Purtroppo, sembrerà strano, ma i miei grandi amici sono quelli che non ci sono più ovvero Mia Martini, Rino Gaetano, Ivan Graziani, Little Tony… Questi sono stati dei miei amici veri, soprattutto chi fra questi viveva a Roma. Però, in generale, non sono uno che può vantare amici in questo mondo, perché preferisco dire quello che penso e questo non piace.
Però ti fa onore..
Non lo so, io non sono uno che rincorre l’onore.
Il più osannato di tutti adesso è Lucio Dalla. Dalla era un tipo che se tu scrivevi che era ‘Gershwin‘ andava bene. Io qualche volta ho scritto delle cose così, allora avevi fatto il tuo lavoro.
Se tu sgarravi, lui ti chiamava e ti spiegava quello che tu non avevi capito. Una volta gli dissi «Guarda Lucio, io non sto sul tuo libro paga purtroppo… Quindi, o siamo amici e mi chiami sempre, o se no non mi puoi chiamare quando io ‘sgarro‘ e dico quello che penso. Chiama qualcun altro».
I miei colleghi giornalisti, soprattutto quelli dei quotidiani o quelli delle radio, non possono permettersi questo. Sai perché non possono? Perché se tu un personaggio di primo piano lo tratti così, quello ti depenna, non ti invita più alle sue prime, ecc..
Allora tu poi ti devi giustificare con il tuo direttore, che c’è un tour di Dalla o di Zucchero che parte magari dall’estero e tu non ci sei. Che gli dici al direttore? Che hai scritto la verità? Sai che gliene frega a quello? E quindi sei un danneggiato. E allora tutti sono ‘appecoronati‘… Mi dispiace dirlo, però purtroppo è così..
Allora devi avere i cellulari in pronta battuta, devi dire cose sempre meravigliose e io non vado bene per questo, tutto qua.
Poi ognuno si ritaglia quel pezzo di attività che preferisce, nel senso che io, onestamente, non andrei bene per quello che t’ho detto e forse non sarei neanche bravo a farlo. Però questi sono vendicativi! Io queste cose le ho scritte su Vasco Rossi, su Ligabue e sono inviso a questi qua. Che poi se avessero il coraggio… Che Zucchero è un copione, che ha copiato qualsiasi cosa, non è una grande notizia, lo sappiamo tutti, però nessuno lo scrive. Poi è chiaro che se diventi amico…
Una volta andai a Matrix e mi trovai Zucchero, neanche lo sapevo che c’era. Era lì a fare promozione. E là poi scatta il fattore umano, perché Zucchero è un emiliano, è un ragazzo simpatico. Però è un copione. Allora io gli dissi questa cosa, però poi prevalse la simpatia.
Perché uno che si esprime in emiliano già ti ‘frega‘e se poi ti dice…«Beh, ma quella non è che l’ho copiata, mi è venuto in sogno Ray Charles», allora la butti in caciara e va beh… Ci sto!!!
ALEX PIERRO
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‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
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