No. Non è poesia. È l’invito a visitare e godere di ciò che la Mostra d’Arte, ben allestita dal giovane e promettente pittore bagherese… di “buona mano e sensibile aggetto artistico” Giuseppe Alletto (Palermo 1990), propone ed offre all’appassionato del bello da gustare. Tonalità e slancio di colori in movimento aprono e rendono felice l’ingresso nell’incantevole cornice della “Fattoria dell’arte” dello scultore Lorenzo Reina, gioiosamente appollaiata tra le amenità di Santo Stefano Agrigentino. L’inaugurazione, che avrà luogo sabato18 Luglio alle ore 19.00, ha il pregio di presentare una serie di ritratti di raffinatissima fattura, prova inesauribile di virtuosismo tecnico che nell’uso della grafite trova il suo acme.
<< Qui -si legge nel catalogo di Alfonso Leto– è un insieme di volti a coagularsi in una rosa di illustri personaggi della cultura e dell’arte di ogni tempo. Ora di scorcio, ora emergenti da conturbanti ombre caravaggesche, sempre essi appaiono custodi di enigmi: Luigi Pirandello, Renato Guttuso, Charles Baudelaire, Louis Ferdinand Céline (solo per citarne alcuni), il cui messaggio va oltre la parola, oltre lo specchio dell’anima, oltre lo sguardo che, in effetti, spesso viene celato. Di certo- prosegue Alfonso- questi ritratti sono i fantocci che il ventriloquo Alletto fa “muovere” a suo piacimento per interpretare il suo personale monologo noire sul simulacro figurabile del ritratto.>>
Lungi dall’indulgere a mero citazionismo, i ritratti di Alletto sono facies simboliche e simbiotiche, nella misura in cui permettono allo spettatore una riflessione sul senso ultimo dell’essere Uomo, con le proprie inquietudini, con le proprie angosce, finanche con i propri furori, in un bisogno di ultima resistenza alla realtà, che si imprime sul nostro viso- come accade nel Ritratto di Giorgio De Chirico… “pietrificato in una smorfia di sdegno –rilancia Alfonso Leto– come una statua di neve sporca pronta a sciogliersi sotto i raggi obliqui della luce”.
A coronamento della giornata carica di eventi, irrompe l’Icaro morente , opera scultorea di Giuseppe Agnello (Racalmuto, 1962). L’Icaro morente, in resina poliestere di imponente dimensioni raffigura il mitico “eroico pre-argonauta” rovinosamente precipitato al suolo per aver osato un volo troppo ambizioso: una sfida nel sole. Collocato nel foyer del Teatro Andromeda (un icona di “teatro greco” anch’esso scaturito dalla inesauribile vena artistica dello stesso Lorenzo Reina) inaugura bellamente la nuova stagione de “L’Arte in scena”. Scrive a tal riguardo Cetta Brancato: “C’è un rogo mai acceso nella sua intuizione, una contemporanea coscienza della sconfitta, il metafisico segno del nulla. Nel sonno o nella morte di Icaro ritorna la nuda innocenza della sfinita caducità dell’amore (…) una lievità struggente e metafisica, un torpore di grazia, irreversibile”.
L’Icaro morente di Agnello appare sereno dopo la caduta. Egli giace circondato, quasi sacralmente aureolato, dai simboli/reliquie della sua stessa hybris. L’uomo, sempre teso a superare i propri limiti, trova finalmente la quiete nella perdita, nella sconfitta, nell’annullamento. l’umano ritorna, insomma, con i piedi per terra. Nello scultore di Racalmuto il riferimento al Mito è sempre strumento atto a leggere la condizione dell’uomo contemporaneo travolto dal flusso del tempo, devastato dal peso del passato e dalla nostalgia di una purezza perduta. Quel Mito intriso di lutto tragico, che fa da sostrato comune all’immaginario “sublimamente romantico” di Giuseppe Alletto e a quello di Giuseppe Agnello, nell’uno, il senso di perdita è connesso al sentimento sovrastante che si prova di fronte ai ritratti, a questo “ideale Olimpo degli dei del nostro tempo” (Leto), che siede solenne, eternamente immobile, come adunanza muta di grandi avi estinti. Nell’altro, ogni fragore tragico viene attutito e smorzato con toni elegiaci, rendendo persino il fallimento sublime e la sconfitta, dolce e incosciente, come la fanciullezza di Icaro.