Roma, 8 ottobre
Dal 2 all’11 ottobre, al Teatro Lo Spazio, in via Locri 42, zona San Giovanni, è in scena moro. I 55 giorni che cambiarono l’Italia, di Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce, regista e interprete.
“Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato”. Questa frase è il fulcro dell’azione scenica, documentata anche dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro. Nello spettacolo il magistrato compare in video interagendo con il protagonista, rivelando verità terribili che sono rimaste nascoste per quarant’anni.
Il titolo dello spettacolo è “moro” con la “m” minuscola a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo “morire”. Come se la “morte” di Aldo Moro fosse stata “scritta”, fosse cioè necessaria per bloccare il dialogo con i social comunisti, assecondando i desideri dei conservatori statunitensi e dei grandi petrolieri americani in Italia, rappresentati da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che, dopo la morte di Moro, ebbero una folgorante carriera, condannando l’Italia alla “sudditanza” degli USA.
Moro sente che gli uomini di primo piano del suo stesso partito “assecondano” la sua morte trincerati dietro “la ragion di Stato”. A prova di ciò, scrive in una delle sue ultime lettere: “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. Chiedo che ai miei funerali non partecipino né le Autorità dello Stato, né gli uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto veramente bene e sono degni di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.
Il racconto scenico parte dai fatti del 16 marzo 1978 quando Aldo Moro fu rapito e furono uccisi gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Raffaele Iozzino, era di Casola di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Unico membro della scorta, prima di morire riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi,. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal fratello Ciro un orologio con il cinturino in metallo. Ciro, quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente, grazie al vecchio televisore Mivar, vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava sotto il lenzuolo soltanto un braccio con l’orologio: questa è l’immagine emblematica che ricorre più volte nelle proiezioni del video, è la radice prima del dolore di Ciro, protagonista dello spettacolo. Questo dolore diventa rabbia, e questa rabbia lo spinge a rintracciare il giudice Imposimato, titolare del processo, al quale chiede di sapere la verità. Sarà il rapporto tra Ciro e il giudice, strutturato su questo forte desiderio di verità, a rendere chiaro al pubblico che la morte di Moro e dei giovani membri della scorta furono “assecondati” dai più alti esponenti dello Stato italiano con la collaborazione dei Servizi segreti americani.
Nello spettacolo assume una funzione altrettanto importante l’incontro e l’amicizia tra Ciro Iozzino e Adriana, la sorella del poliziotto Francesco Zizzi, altro membro della scorta di Moro, proveniente da Fasano in provincia di Brindisi, che quella mattina del 16 marzo era al suo primo giorno di lavoro, sostituendo la guardia titolare che la sera prima, stranamente, era stata mandata in ferie. Francesco, diventato da poco poliziotto, aveva una grande passione per la chitarra e amava cantare le canzoni di Domenico Modugno. Aldo Moro in macchina, quella mattina, “affrontava” gli ultimi giorni della sua vita, ascoltando Zizzi che cantava “La Lontananza” di Modugno.
L’ingenuità e la leggerezza dei membri della scorta irrobustiscono la disperata determinazione di Ciro Iozzino nella ricerca della verità. Questa ricerca lo porterà di fronte a molte “stranezze” che nello spettacolo saranno ricordate. La denuncia finale di Ciro Iozzino riguarda le rivelazioni agghiaccianti di Pieczenik, un esperto di terrorismo mandato segretamente in Italia dal governo USA per la gestione del caso Moro.
Le parole di Ulderico Pesce: «Questo nostro lavoro vuole prima di tutto contribuire alla scoperta della verità e alla sua divulgazione. Il fine è un po’ altezzoso ma le scoperte del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, fino all’assassinio del fratello Franco, vanno verso la costruzione di una chiara verità: “Moro doveva morire”, era utile bloccare la sua apertura alla sinistra. Nelle parole e nelle azioni di Ciro Iozzino abbiamo voluto descrivere le ansie e la disperazione di un ragazzo del sud a cui “distruggono” la famiglia».
di Donatella De Stefano