Domenica sera 27 agosto 1950, in una Torino allucinata da quell’ afa estiva che solo dopo il tramonto inizia a calare, un cameriere dell’hotel “Roma”, vicino alla stazione di Porta Nuova, ultimando il solito giro di controllo delle stanze s’accorgeva che il cliente della n. 43 non s’ era piu’ visto dalla sera precedente, dopo aver trascorso la giornata in camera, facendo diverse telefonate. Forzata la porta della stanza, il cameriere constatava che il cliente giaceva sul letto, morto ormai da parecchie ore. Quell’uomo, che s’era tolto la vita proprio come una delle protagoniste del suo romanzo “Tra donne sole” , o come, in seguito, gli amanti disperati della celebre “Albergo ad ore” cantata da Paoli, era Cesare Pavese. Il brillante traduttore – per Frassinelli, Bompiani, Einaudi – di Joyce, Melville, Steinbeck, Dickens e altri grandi della letteratura anglosassone; lo scrittore di romanzi come “La bella estate”, “Il compagno”, “La luna e i falò”; il fine poeta di “Lavorare stanca” e “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
A 65 anni dalla morte del poeta delle Langhe, Silvana Conti, docente di lettere già allieva di Natalino Sapegno e Alberto Asor Rosa, ha pubblicato “Cesare Pavese- L’amore, l’allegria,la disperazione” (Roma, Serarcangeli, 2015, pp. 111, €. 14,00). Un saggio dall’agile taglio che, tenendo presenti le dettagliate ricostruzioni della vita dello scrittore già fatte da autori come Davide Lajolo (”Il vizio assurdo”, 1960, portato poi in teatro, con un Luigi Vannucchi impressionante nei panni di Pavese) e Bona Alterocca (“Cesare Pavese, vita e opere”, 1985), guarda al personaggio da nuovi punti di vista.
Focalizzando aspetti della sua vita e del suo iter culturale sinora trascurati, o fraintesi, dalla critica. Come la sottile ironia (e autoironia), contro il clichè del Pavese tetro e leopardianamente pessimista; il suo difficile contesto familiare (all’opposto di Pasolini, Pavese – che perde il padre a soli sei anni – ha con la madre, figura energica e autoritaria, un rapporto tormentato). Il rapporto con le donne, per il quale l’Autrice evidenzia la vulnerabilità e l’emotività psicosomatica che lo resero difficile, ma anche la capacità di Cesare d’ amare profondamente (anzitutto l’attrice americana Constance Dowling, o Battistina Pizzardo, peraltro già legata al giovane militante comunista, futuro “Mosè dell’Europa”, Altiero Spinelli): interpretando – nel senso piu’ nobile del termine – il ruolo anche tragico dell’innamorato. E i temi fondamentali della sua ispirazione: quel costante ritorno alla dimensione dell’infanzia, al “fanciullino” che è sempre in ognuno di noi, e al mondo panico e austero della campagna che davvero lo accosta, da un lato, a Pascoli, e, dall’altro, a Pasolini. Infine, il Pavese politicamente impegnato: Silvana Conti ricorda che lo scrittore, iscrittosi al PCI nell’immediato dopoguerra, durante la Resistenza non aveva partecipato alla lotta partigiana, sentendosi soprattutto estraneo al quotidiano dominio della violenza (alla pari, del resto, di altre importanti figure “controcorrente” del nostro Novecento, come il padre della Nonviolenza italiana, Aldo Capitini).
Pochi altri suicidi hanno pesato sul clima culturale e sull’immaginario collettivo del nostro dopoguerra come quello di Pavese (forse quello, “mutatis mutandis”, di Luigi Tenco, quasi vent’anni dopo): Silvana Conti aggiunge importanti tasselli alla definizione del mosaico dell’uomo di Santo Stefano Belbo.
di Fabrizio Federici