Sempre educato ed elegante nei modi, mai spocchioso e banale, ottimo conversatore per gusto e competenza. E’ proprio quell’insieme armonico di arte, cultura e stile, caratteristiche integranti del suo bagaglio, che rende Pino Strabioli un acuto autore ed un originale quanto poliedrico personaggio, con i suoi programmi televisivi e le sue interviste teatrali sempre di spessore. Che sanno, come pochi, far riflettere lo spettatore. La qualità è allora di scena: la sua innata naturalezza sul palco ha portato Strabioli ad accettare per la prima volta il ruolo inedito anche in un musical: è, infatti, Monsignor O’Hara nello spettacolo “Sister Act” che sta riscuotendo un grandissimo successo al Teatro Brancaccio. Oltre ogni previsione. Merito anche dell’attenta e meticolosa regia di Saverio Marconi che porta in scena un prodotto che riesce sempre ad appassionare e divertire, tra ritmi incalzanti, colpi di scena e musiche coinvolgenti, effetti scenografici e giochi di luce, con un intreccio di dialoghi ben costruiti (il testo e le liriche sono tradotti da Franco Travaglio). Tra le attrici principali sul palco ricordiamo Belia Martin (nel ruolo di Deloris Van Cartier), Suor Cristina (ad interpretare, in alternanza con Veronica Appeddu, il ruolo di Suor Maria Roberta) e Francesca Taverni (nelle vesti dell’austera Madre Superiora). Lo spettacolo, tratto dall’omonimo film del ’92 che consacrò al cinema l’attrice Whoopi Goldberg, sarà di scena a Roma fino al prossimo 24 gennaio: Alessandro Longobardi, formidabile direttore artistico del teatro Brancaccio, dopo il grande successo già ottenuto con Rapunzel, ha puntato su questo progetto, firmato da Viola Produzioni in collaborazione con la Compagnia della Rancia, raggiungendo brillantemente l’obiettivo prefissato, con un successo di pubblico e della critica.
Cosa significa per Pino Strabioli entrare ogni sera in scena?
“Entrare in scena è sempre una responsabilità e, se vogliamo, anche un timore: trovo rassicurante la televisione dove mi trovo a mio agio, la tv non mi emoziona particolarmente, quando invece il direttore di scena a teatro ti scandisce i minuti, prima di cominciare lo spettacolo, ecco che sento salire davvero una forte brivido. Non ero abituato tra l’altro a recitare davanti a 1.500 persone come come al Brancaccio dove infatti vanno in scena i musical, perché il teatro che io ho fatto è stato di 500-600 posti: quindi un po’ di paura ti assale all’inizio, ma poi il divertimento ti prende e ti coinvolge, grazie soprattutto anche ai colleghi che sono sul palco davvero straordinari”.
Ma se si volta indietro a guardare i suoi inizi a teatro, quale ricordo le affiora alla mente con maggiore emozione?
“Dai primi spettacoli che ho fatto al teatro dell’Orologio con Patrick Rossi Castaldi sul cabaret tedesco, alla vera palestra di vita che è stata l’esperienza formativa e significativa con Paolo Poli con il quale ho fatto I viaggi di Gulliver, ma uno spettacolo a cui tengo molto, si chiamava Il Botteghino, è stato quello dove Gabriella Ferri era per la prima ed unica volta in regia, nell’allora suggestivo teatro In Trastevere”.
Il nome di Gabriella Ferri ricorre spesso nei suoi racconti…
“Si perché io sono un fanatico della memoria. Oggi tendiamo a dimenticare tutto e tutti. Gabriella Ferri è stata assolutamente una figura importante nella storia del teatro e per la città di Roma. Per cui non va mai dimenticata. Per il suo talento e la sua umanità”.
Regista, autore, attore, conduttore televisivo, intervistatore ma inevitabilmente anche dall’altra parte del microfono come intervistato. Qual’è il ruolo più semplice da interpretare?
“Mi piace molto intervistare. Essendo un curioso di natura, quando ho di fronte una persona sono stimolato dalla sua conoscenza, cercando di carpirne umori, pensieri, sensazioni, ma anche sogni e speranze. Diceva il grande maestro Enzo Biagi che bisognerebbe preparare soltanto una domanda e, ascoltando la risposta, saper andare avanti come si suol dire a braccio”
Ma cosa avrebbe oggigiorno bisogno il teatro proprio in questo momento di crisi generale?
“Una città senza teatro è una città senza vita e senza cultura: il teatro non è un prodotto di nicchia, ma è cultura per tutti e avrebbe bisogno, come tanti settori dalla scuola agli ospedali, per non parlare dei salari della gente, di risorse economiche. Faccio questo esempio: il direttore artistico Andrea Longobardi investe direttamente in prima persona per sostenere uno spettacolo che coinvolge sessanta persone con costi elevati di gestione. Inevitabilmente il presso del biglietto non può essere sottocosto, colpa però di una politica che ha dimenticato da troppo tempo che la cultura è fondamentale. L’arte è espressione, tradizione, storia. Quindi il teatro è vita: un patrimonio da tutelare, logorato invece da chi non riesce o non vuole capire l’arte. In Italia, purtroppo, si assiste da tempo ad un regressione culturale che ha colpito la televisione, il cinema, il teatro, la musica. Andrebbe davvero data una medaglia a direttori come Longobardi che, senza aiuti statali, riescono a proprio rischio a lavorare e a mettere in scena queste produzioni. Il nostro Paese avrebbe bisogno sicuramente di maggiore ricchezza: quando l’abbiamo avuta è stata però distribuita male e sperperata senza criterio. Occorre ripartire con una classe dirigente in grado di sostenere tutte le espressioni artistiche e culturali. Lo Stato allora non deve abbandonare chi investe sulla cultura. E poi bisogna sfatare la teoria che gli spettatori siano impreparati: personalmente non ho questa percezione, ritengo invece gli spettatori sappiano assolutamente riconoscere la qualità del prodotto. Caso mai bisogna analizzare quello che il piccolo schermo vuole imporre al pubblico: diamo spazio alla cronaca, se fatta però con professionalità ed intelligenza senza mercificare il dolore, ma soprattutto diamo spazio e valorizziamo anche a coloro che sanno produrre formazione, creatività, approfondimento, innovazione. Rischieremo altrimenti di disperdere tanti talenti. La cultura può essere invece proprio l’elemento chiave con cui uscire dalla crisi economica e d’identità del nostro Paese”.
Marco Tosarello