Partiamo da un assunto. Quando si parla di cinema italiano, inevitabilmente c’è sempre una certa aura di incertezza e dubbio, di diffidenza, ed il pensiero va subito a film di fattura non eccelsa (chiamiamola così), ingabbiati sempre nei soliti cliché dai quali è difficilissimo fuggire. La commedia all’italiana, intesa proprio come etichetta narrativa, negli ultimi anni è sempre uguale a sé stessa, ripetitiva, punta su una facile comicità, rischiando veramente poco. Ed a proposito di rischio, è difficile assistere all’uscita in sala di film che non appartengano a questo genere ma che, allo stesso tempo, possano ambire ad un eclatante successo al botteghino. Questa, ad oggi, è purtroppo la realtà dei fatti.
Poi, l’11 febbraio, esordisce nelle sale Perfetti sconosciuti, ed il panorama delineato fino ad ora viene completamente rovesciato. Il regista di questo lungometraggio è Paolo Genovese, già direttore di film come La banda dei babbi Natale, Immaturi (il primo ed il secondo), Sei mai stata sulla luna?, ed altri prodotti che rientrano alla perfezione in quanto detto precedentemente. Il registro utilizzato per questa nuova fatica, però, è completamente diverso da quelli visti sinora, e infatti questo film è fra quelli da tenere obbligatoriamente d’occhio quest’anno. Genovese rompe tutte le gabbie di un certo modo di fare film, e dirige un lavoro quasi perfetto sotto ogni punto di vista, assumendosi anche una dose di rischio non indifferente. Rischio controllato, certo, come si può già intuire dalla scelta del cast, formato da alcuni dei più acclamati attori italiani, più qualche scommessa che, oggettivamente, è stata vinta. Ma andiamo per gradi.
Perfetti sconosciuti presenta diverse innovazioni narrative, rispetto a tutti i prodotti precedenti, prima fra tutti una impostazione quasi teatrale della sceneggiatura. Scomodando uno dei più grandi pensatori del passato, in questo film vengono rispettate le cosiddette unità aristoteliche di tempo, luogo e spazio, fondamentali, secondo il filosofo greco, per una perfetta rappresentazione narrativa. Al tempo della fiction corrisponde il tempo reale in cui lo spettatore assiste allo svolgersi degli eventi, che prendono vita quasi completamente in un medesimo luogo, una sala da pranzo. Tutto si regge sui dialoghi e sull’interpretazione degli attori, per certi versi moderata, lineare, assolutamente reale. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il fulcro attorno a cui tutto ruota è una filosofia quotidiana, moderna, con cui tutti noi abbiamo a che fare ogni singolo giorno. Cosa accadrebbe se aprissimo i contenuti del nostro cellulare, tutti i suoi cassetti, alle persone che abbiamo più vicino? Se i nostri amici, mogli, mariti, potessero leggere ed ascoltare tutte le nostre chiamate e messaggi, anche per una sola sera? Tutti quanti hanno (abbiamo) segreti più o meno grandi, veniali o inconfessabili e, questo è certo, sono tutti custoditi nei nostri
cellulari. Le scatole nere della nostra vita, come dice Peppe, interpretato da Giuseppe Battiston. Basta una serata senza alcun tipo di filtro sugli smartphone che ci accompagnano in ogni momento per mettere in discussione ogni aspetto della nostra vita, ed anche le persone con cui si è condiviso tutto diventano improvvisamente dei perfetti sconosciuti.
La narrazione statica è retta perfettamente da tutto il cast, amalgamato alla perfezione, complice, capace di trasmettere allo spettatore quell’ansia che prenderebbe in ostaggio chiunque, anche i più innocenti, in una situazione del genere. Non c’è nessuno che spicca sugli altri, e Genovese delinea perfettamente ogni singola personalità presente sulla scena. Mastandrea e Foglietta sono una coppia stanca, disillusa, che cerca di nascondere sotto il tappeto problemi che trascendono la comune noia matrimoniale. Edoardo Leo è uno spaccone dolce e innamorato dell’ultima arrivata in questo gruppo di amici, una Alba Rohrwacher, timida, impacciata, con mille sfaccettature che vengono fuori mano a mano. Giallini e Smutniak sono i padroni di casa, psicologa lei e chirurgo plastico lui, nei quali i dubbi e le incomprensioni lottano costantemente con la voglia di andare avanti. E poi c’è Battiston, l’unico non accompagnato, quello che forse più di tutti pagherà per il suo segreto, nonostante sia quello che dovrebbe avere meno da nascondere.
Perfetti sconosciuti è un film reale perché trasla sullo schermo la persona comune, è lo spettatore che guarda sé stesso in un’altra forma, riconoscendosi e biasimandosi. Chi guarda viene travolto da una consapevolezza quasi dolorosa, una consapevolezza che pone mille domande senza dare neanche una risposta. Una sensazione che viene acuita dal finale spiazzante, che solleva da qualsiasi responsabilità tenendo allo stesso tempo quell’inquietudine nascosta lì, da qualche parte. Ed alle mille domande e questioni che vengono sollevate dalla pellicola, se ne sostituisce una sola, più forte di tutte. È meglio conoscere una situazione scomoda ed affrontarla oppure esserne tenuti all’oscuro, e continuare a vivere la propria vita senza farsi troppe domande?
Perfetti sconosciuti è un ottimo film che, oltre a sollevare tante questioni, indaga nell’animo umano, utilizzando il vettore tecnologico come scusa per portare sullo schermo mille sfaccettature di una umanità varia, imprevedibile, timida, rancorosa, capace di esplodere sotto il minimo impulso non preventivato.
Un consiglio: se doveste andare a vedere questo film in compagnia, ecco, magari aspettate di arrivare a casa prima di leggere quel messaggio che vi ha fatto vibrare la tasca durante la visione.
Andrea Ardone