Gabriele Mainetti riporta Roma al cinema e le dà il ruolo di protagonista, nella maniera più inaspettata possibile. Con Lo chiamavano Jeeg Robot, il regista romano ricostruisce in maniera superba quelle atmosfere supereroiche che ormai da anni stanno facendo la fortuna dei botteghini di tutto il mondo, adattando alla cultura italiana e, ancora meglio, romana, gli stilemi derivati dai comics americani. La città tratteggiata dal regista trentanovenne si discosta, e di molto, da quella raccontata nell’ultimo, grande, film che la vedeva protagonista. Della Roma vista ne La grande bellezza, che si specchia nei salotti buoni, che si foraggia di aperitivi a base di champagne e tartufo su un attico del centro storico, non c’è traccia. I personaggi che danno vita al primo lungometraggio di Mainetti, si muovono tra la periferia di Tor Bella Monaca ed il centro commerciale Roma Est, mangiando quantità industriali di yogurt in un
appartamento scalcinato. E’ la Roma brutta, sporca e cattiva della piccola criminalità organizzata, dei furti ai furgoni portavalori, delle risse da strada. In un ambiente del genere vengono poste le basi per una fiaba moderna, di cui l’elemento supereroico (anzi, super e basta) è solamente la ciliegina sulla torta. I protagonisti sono gli ultimi della società, criminali piccoli ed ancora più piccoli che lottano per arrivare al vertice del loro mondo, facendo della violenza la loro way of life.
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità” è forse la frase che meglio incarna il mondo dei supereroi americani. Se hai dei poteri che ti rendono speciale, devi usarli per fare il bene della comunità, per rendere il mondo un posto migliore, perchè questo è il tuo dovere. Ma Enzo Ceccotti di responsabilità non ne vuole avere, né grandi né piccole. Però ha i poteri, acquisiti, come tradizione richiede, venendo a contatto con una sostanza di origine, ovviamente, radioattiva. Ecco, le somiglianze del personaggio interpretato da un Santamaria in grande spolvero con la norma delle storie di supereroi termina qui, almeno per il momento. La prima azione che compie una volta scoperte le sue nuove abilità, infatti, non concerne né bambini intrappolati in un palazzo in fiamme né donzelle in pericolo. Per tutto questo c’è tempo. Come prima cosa il neo-superuomo rapina un bancomat, con la stessa goffaggine che ha caratterizzato tutta la sua vita da criminale comune, e che lo porta a dover stendere per casa i contanti rubati, macchiati dall’inchiostro indelebile dell’antifurto. Anche quando, poco dopo, la donzella in pericolo c’è e Ceccotti la salva, non lo fa per puro spirito altruistico. La sua decisione è determinata dal fatto che la principessa da salvare è la sua vicina di casa e lui non vuole problemi, si mette in gioco per testare le sue abilità, lo fa per mantenere un segreto che venendo a galla probabilmente lo farebbe uccidere. Quel che è certo è che non lo fa perché si sente un supereroe, anche se c’è chi la pensa in maniera diversa. Alessia è una ragazza cresciuta in un ambiente difficile, figlia di un padre criminale che ne abusava. Per fronteggiare la vita con cui si trova a dover fare i conti, si rifugia in un mondo fittizio, abitato da strane creature ed in cui la giustizia è rappresentata da un grosso uomo d’acciaio. E’ naturale, per lei, scambiare l’uomo misterioso che la salva con l’eroe che ininterrottamente vede, sulla
sua televisione, proteggere il mondo dalle tenebre. Da questo momento in poi le vite dei due personaggi saranno legate da un filo invisibile, che resiste agli iniziali tentativi di Ceccotti di reciderlo in maniera netta. La principessa ed il suo principe oscuro si aiutano l’una con l’altro, anche se il compito più difficile è affidato proprio a lei, che vuole a tutti i costi che il suo salvatore si renda finalmente conto di ciò che deve fare, del perché gli siano stati affidati quei poteri. Proprio a lui che con la gente non vuole averci nulla a che vedere. A fare da collante involontario fra le due anime perdute, ognuna a modo suo, sarà lo Zingaro, le cui vesti sono portate in scena in maniera magistrale da Luca Marinelli. A capo di un piccolo gruppo di fuorilegge ha come unico obiettivo quello di diventare grande nel panorama della criminalità organizzata e per raggiungerlo è pronto a sacrificare tutto, anche gli amici di una vita.
Le storie di questi tre personaggi si scontrano ed intrecciano in maniera drammatica, sia per il pericolo che rappresenta la figura dello Zingaro, ma anche per il rapporto stesso che intercorre fra Enzo ed Alessia, caratterizzato da salite verso la luce e dalle conseguenti ricadute nell’oscurità più profonda, come si confà ad una storia di supereroi che si rispetti. A tutto questo fa da sfondo una Roma confusa e ferita, in cui degli attentati di cui non si conosce l’origine stanno stringendo la popolazione in una morsa di paura difficilissima da sciogliere.
Lo chiamavano Jeeg Robot è il primo lungometraggio di Mainetti, in cui riecheggia l’eco della cultura pop figlia dei cartoni giapponesi che tanta fortuna ebbero nel nostro paese negli anni ’80. Dopo il cortrometaggio Basette, che si ispirava alle avventure di Lupin III, anche in quel caso riportandone le atmosfere nella realtà della borgata romana, si assiste qui alla consacrazione registica di chi ha tentato, riuscendoci, di portare sul grande schermo una storia che esce, e di gran lunga, dai canoni di ciò che è il cinema in Italia. Era un grosso rischio puntare tutto su un lavoro del genere, ma la risposta del pubblico, della critica e le sedici nomination ai David di Donatello 2016 sono la risposta migliore che si potesse dare, a livello di cultura cinematografica degli spettatori ma anche delle istituzioni stesse.
Tre delle nomination ai David sono riservate ai personaggi principali del film: Claudio Santamaria, la cui prova ha convinto anche coloro che ancora nutrivano dei dubbi su di lui, Ilenia Pastorelli, che nei panni di Alessia ha retto benissimo il confronto con le difficoltà insite nell’interpretazione di un personaggio del genere e, forse un gradino superiore a tutti, Luca Marinelli. Il suo Zingaro è probabilmente una delle prove più convincenti viste nel cinema italiano negli ultimi anni, una caratterizzazione sfaccettata e perfetta, che dona allo spettatore quello stesso senso di squilibrio propria del personaggio. Il resto del cast certamente non è da meno ed è proprio questa coesione cristallina fra le varie prove attoriali uno dei punti di forza di questo film.
Fino a qualche anno fa era impensabile che un prodotto del genere, un film sui supereroi girato in Italia, uscisse nelle sale cinematografiche. Ancor meno dopo il flop de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores. Invece Mainetti ci ha creduto, lui e la sua casa di produzione hanno puntato tutto su questo prodotto e, dati alla mano, hanno vinto la scommessa. Non solo per i risultati che già abbiamo citato, ma anche per l’aria di novità che è riuscito a portare, ad imporre, nel cinema italiano, troppo spesso accusato di immobilismo. Forse è da qui che si dovrebbe ripartire, da film del genere, che possano sfidare i pregiudizi e mostrare che qualcosa di nuovo si può, e si deve, fare.
Il film si conclude con Enzo Ceccotti che, dall’alto del Colosseo, veglia sulla città che ha giurato di proteggere. Andando oltre si potrebbe dire che lo sguardo del nuovo, adesso sì, supereroe, è rivolto verso una nuova strada che ha tracciato per tutta la cinematografia italiana.
Andrea Ardone