“Diderot in Sicilia”, ma anche “Silone in Sicilia”. Così, parafrasando Vitaliano Brancati, potremmo sintetizzare il senso piu’ profondo dell’ impegno di Leonardo Sciascia (1921- 1989): lo scrttore di Racalmuto le cui opere – da “Todo modo” a “le parrocchie di Regalpetra”, da “Il contesto” a “una storia semplice” – sono state, in fondo, soprattutto una denuncia, in nome della ragione illuminista e del sentimento cristiano, delle ingiustizie e dei privilegi feudali perpetuati, nel Sud, da una classe dirigente – sociale e politica – infingarda e prodofondamente corrotta. Così è anche per “Il consiglio d’Egitto”: il romanzo (pubblicato nel 1963 da Einaudi) che è ora in scena, in adattamento teatrale, al “Quirino”, per la regìa di Guglielmo Ferro (figlio del grande Turi), sino all’8 maggio.
Con scenografie essenziali ( di Salvo Minciagli) e costumi( di Riccardo Cappello) curatissimi, nelo stile dei personaggi degli storici presepi napoletani, la regìa di Ferro mette appassionatamente in scena le vicende (dai toni, a guardar bene, anche un po’ cechoviani e gogoliani, da “Anime morte”) dell’abate- falsario Vella (un grande, istrionico Enrico Guarneri: nel ruolo già ricoperto appunto da Turi Ferro al debutto del testo sul palcoscenico del Teatro “Verga” di Catania, nel 1995). Il quale, negli anni dal 1782 al 1795 ( dal 1781 all’ 86, ricordiamo, è Vicerè di Sicilia il riformista Domenico Caracciolo, che contrasta con qualche successo i privilegi medioevali di nobiltà e alto clero), un po’ per spirito giacobino, un po’ per desiderio di autorealizzazione e ascesa sociale, architetta un piano, un “patto dei lupi”, ruotante attorno a un manoscritto arabo medioevale, ritrovato in un convento. Con opportune modifiche, apportate da Vella col fido assistente, il monaco Camilleri (!), il manoscritto – che altro non è se non una banale vita di Maometto – diventa un presunto testo storico e giuridico, sulle vicende della Sicilia araba, in grado d’assestare colpi mortali alla nobiltà e all’alto clero siciliani: impegnati – come in tanti altri Paesi di quell’ Europa moderna
che s’avvia inesorabilnente al 1789 – in una dura lotta con l’assolutismo riformatore e modernizzante della monarchia illuminata.
Una schiera di validi comprimari affianca il mattatore Guarneri: che alterna il registro drammatico al comico e al grottesco (ricordando, a tratti, il Don Abbondio manzoniano, fintamente indisposto). Un testo di respiro europeo: eppure, al tempo stesso, specifica denuncia degli storici mali italiani, di quell’arretratezza culturale, spirituale, morale, fatta d’ipocrisia spagnolesca e vergognosa acquiescenza al potere che resta, purtroppo, la peggior eredità dell’ Italia della Controriforma.
di Fabrizio Federici