Diego Simeone ha perso nuovamente la finale di Champions League a due anni di distanza dalla tragica caduta di Lisbona.
Lo spirito dell’argentino è un pò come quello di un leone ferito «forse lascio l’Atletico, non sarebbe giusto per me andare avanti senza considerare che ho perso due finali». Simeone dopo giorni di riflessione, manifesta tutta l’amarezza della sconfitta rimediata sabato sera a Milano, per certi versi ancor più pesante del 2014. Il Cholo non ha voluto trovare giustificazioni, malgrado il gol del Real in fuorigioco, malgrado il rigore sbagliato da Griezmann, malgrado quel palo di Juanfran che suona ancora come una melodia stonata per le orecchie dei colchoneros.
Festeggia dunque la sua undicesima Champions il Real imperfetto di Zidane, lasciando ancora una volta la rabbia inesplosa di una rivincita più che giusta nei confronti dell’uomo del cuore, dell’animo e della forza del gruppo.
Per Simeone i mezzi tecnici passano in secondo piano rispetto ai valori umani, per questo l’Atletico era di nuovo lì nella sua San Siro ad un passo dalla sua prima Coppa dei Campioni.
Da calciatore El Cholo è passato in diverse e importanti realtà calcistiche europee, sempre con la fascia da capitano sul braccio pronto a prendersi tutte le sue squadre sul groppone.
Pierluigi Pardo, notissimo giornalista, telecronista e conduttore del programma televisivo Tiki Taka su Italia Uno, lo ha raccontato così, nel libro autobiografico di Simeone “El Cholo, il metodo per vincere”.
Dice che le finali non si giocano, ma si vincono. Che leader si nasce ed è meglio non dare mai spazio a pensieri negativi. Che la parola “sforzo” arriva comunque prima di “successo”, anche nel dizionario. Che la fortuna è un concetto talmente astratto da non esistere, perchè tutto passa per il lavoro e la passione feroce. Di tutti noi, insomma, anche se non abbiamo mai giocato in Serie A e tantomeno alzato scudetti o coppe Uefa. Anche se non abbiamo vissuto come lui, sospeso da sempre sotto un cielo mezzo argentino e mezzo europeo. Calciatore prima, poi allenatore, lider maximo sempre, il “Cholo” Diego Pablo Simeone, da quel martedì di fine aprile del 1970, quando è nato a Buenos Aires (e forse già lo sapeva che sarebbe finità così). Un combattente, un miscuglio di razze e sensibilità, duro ma ache tenero, selvaggio e sentimentale, non ditelo a Javier Marìas, che scrisse uno splendido romanzo con questo titolo ma ha da sempre il cuore bianco da tifoso del Real Madrid. Il cholo no. In Spagna, come del resto anche in Italia e in Argentina, ha scelto la strada più obliqua, ripida, meno logica e più complicata per vincere. La sfida eterna dell’altra Madrid, quella che festeggia i rari trionfi, bagnandosi nella Fontana del Nettuno e che da sempre vive di lampi sporadici, illusori. Contropotere, come da destino inevitabile per un indio combattente, uomo dal carisma enorme, dal sangue irrimediabilmente caldo, con lampi sconfinati di personalità e totale indisponibilità alla resa. Un duro certamente. Un pò per carattere, un pò per destino. Simeone, infatti, non ha avuto una carriera facile, dalla parte delle squadre vincenti. Ha, per casualità o scelta non è dato saperlo, vestito quasi sempre la divisa dell’underdog. Ha provato su di sè, profondo, il senso di inadeguatezza. Ha elaborato il significato della sconfitta, come all’inizio dell’esperienza in panchina con il Racing di Avellaneda. Ha trovato l’essenza, il valore di tutto nella ricerca faticosa, nel lavoro quotidiano che porta a migliorarsi, nel trionfo finale come ricompensa e anche grazie a questa sofferta complessità probabilmente, sta diventando un grandissimo allenatore. Il carisma non gli è mai mancato, del resto. Capitano da una vita, da quando Romeo Anconetani, storico presidente del Pisa, lo portò qui. Aveva vent’anni, erano appena passate le Notti Magiche del Mondiale 1990, l’Italia era il centro del mondo per tutti gli innamorati del calcio. Per gli argentini, poi , questo era il Paese dove giocava il vero Diego Armando Maradona. Il Cholo arriva in Toscana in un giorno torrido d’estate, con l’entusiasmo di chi sbarca nella terra promessa, un cappotto improbabile da inverno argentino e un foglietto in mano, con poche parole scritte in un italiano provvisorio, il saluto a tifosi e giornalisti che si allenava a leggere in aereo, con la dedizione dei predestinati. Sapeva che in quella presentazione c’era già un pezzo del destino che sarebbe arrivato poi, tra cadute, incertezze e forza di rialzarsi. A Pisa non sfonda, in Spagna incrocia il mito Maradona al Siviglia, poi si consacra con i dodici gol e il ruolo di ispiratore massimo dello storico, insperato scudetto del 1996 dell’Atletico Madrid. Il calcio d’inizio ufficiale di una storia d’amore colchonera che lo porterà fino a oggi. Torna in Italia, scelto dall’Inter di Gigi Simoni che conduce alla vittoria in Coppa Uefa a Parigi con l’aiuto di Ronaldo, prima di rompere cl brasiliano e scegliere di andarsene via e accompagnare la Lazio negli anni dei trionfi cragnottiani. Segna gol iconici, come quello nerazzurro in coppa contro lo Strasburgo, quello della svolta a Torino contro la Juve di Ancelotti che avvicina lo scudetto biancoceleste e ancora, sempre con la Lazio, nella finale di coppa Italia vinta nel 2000 proprio contro l’Inter. È capitano dell’Argentina 1998 che si ferma nei quarti con l’Olanda, di nuovo sospeso tra grandezza e miserie, trionfo e sfortuna. Si blocca a sette mesi dal mondiale 2002. Il crociato e la cartilagine, la fatica e la volontà, le vacanza sfumate e la voglia infinita, il cartellino scritto a penna e attaccato sulle scale di casa e in palestra. Sopra, uno per uno, i 180 giorni a disposizione per ritornare in forma. Una tabella rigorosa, cerchiata ogni mattina con la penna nera, come fosse un carcerato o un militare che sogna il congedo. Ovviamente il Cholo recupererà dall’infortunio, verrà convocato da Marcelo Bielsa e giocherà anche due partite. Logico per chi ha fatto della volontà che può tutto la religione suprema. Da allenatore, non è cambiato. Anzi adesso disciplina, fame, umanità fanno risultare la differenza di Simeone ancora più evidente. Prende l’Atletico Madrid a dicembre del 2011, nel guado della mediocrità, dopo la gestione faticosa di Gregorio Manzano, e senza praticamente poter fare mercato se non con gli introiti della cessione milionaria di Falcao. Dribbla avversari e ostacoli di ogni tipo, costruisce un’epoca d’oro, vince coppe in Spagna e in Europa, valorizza giocatori considerati mediocri fino a qualche mese prima. Soprattutto comunica il senso di appartenenza che mancava da anni e che porta la gente rojiblanca a sentirsi Popolo, Nazione, in ribelle e costante ascesa, capace di sovvertire l’ordine costituito e la forza economica di Real Madrid e Barcellona che sembrano impietrite di fronte a un simile miracolo sportivo. Un’impresa da rivoluzionario, da combattente puro, da Cholo, semplicemente. Un uomo solo, l’allenatore che si paralizza nel momento del trionfo, lasciando il palcoscenico alla follia festosa dei suoi giocatori, per godersi il vuoto dentro, la sensazione di libertà. È successo a Bucarest nella finale di Europa League, a Montecarlo in quella di Supercoppa Europea, ed era, ovviamente soltanto l’inizio. Oggi può scegliere ciò che vuole. Panchine milionarie, budget sterminati, lusinghe luccicanti. Eppure ci stupirebbe ritrovarlo ancora dalla parte di chi si sente outsider. In ribellione permanente con chi ha disegnato così il mondo. Con la faccia da indio, i capelli ingellati e il sorriso gentile di chi non ha paura. Nemmeno stavolta.
Pierluigi Pardo