Gli anni ‘80 hanno generato un fascino particolare fin dai primi anni del decennio successivo. La produzione artistica di quel periodo, musicale e cinematografica in primis, ha ispirato tantissimo l’industria dell’intrattenimento, e non a caso da qualche anno a questa parte uno dei filoni che più vengono sfruttati dall’industria cinematografica statunitense è quello che riporta sul grande schermo importanti franchise del passato, la maggior parte dei quali nati proprio nel decennio di Star Wars ed Indiana Jones. La ricetta per questo tipo di operazione è semplice: si riprendono personaggi, idee e tematiche che erano innovative trent’anni fa, riadattandone gli sviluppi e gli stilemi all’epoca moderna, tentando in questo modo di far leva sul sentimento di nostalgia del pubblico.
Poi è arrivato Stranger Things.
La serie targata Netflix potrebbe essere definita come l’anello mancante fra le produzioni originali degli anni ‘80 e i relativi remake. Questo racconto, firmato dai Duffer Brothers (così sono accreditati gli ideatori, Matt e Ross Duffer),
è infatti un coinvolgente ed oscuro puzzle i cui pezzi nascono direttamente dal canone cinematografico di quegli anni, ancora più precisamente dal quel cinema di genere fantastico e fantascientifico che ha partorito cult come E.T. e I Goonies. Ma Stranger Things non è solo questo, non è un prodotto-nostalgia fine a sé stesso, qui l’omaggio è solamente la punta dell’iceberg, e tutto quello che si può trovare sotto di essa è spaventosamente perfetto.
La storia di base è estremamente semplice. In una cittadina della provincia americana un dodicenne sparisce improvvisamente senza lasciare alcuna traccia. Da quel momento in poi una serie di personaggi si metterà sulle sue tracce, per tentare di riportarlo a casa, tutto questo condito da esperimenti governativi andati male e dall’immancabile binomio USA-URSS. Fine. In questa brevissima sinossi non c’è un singolo elemento che possa definirsi al 100% originale. Ed è in gran parte per questo che Stranger Things è un prodotto così ben riuscito, proprio perché utilizza stereotipi, nella trama così come nei personaggi, da cui il pubblico non si aspetta assolutamente nulla di nuovo, ribaltandoli freneticamente e riuscendo in questo modo sempre a sorprendere. Le tre linee narrative in cui
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si potrebbe dividere la sceneggiatura, corrispondenti idealmente alle tre storie di ricerca dello scomparso (i suoi tre migliori amici coadiuvati da una misteriosa ragazzina, lo sceriffo e la madre che si concentrano sulla pista governativa ed il fratello, aiutato da una compagna di scuola) si intersecano in continuazione, senza mai che una prevalga sull’altra. Si guardano, si osservano arrivando a toccarsi, confrontandosi, per poi, improvvisamente, allontanarsi di colpo.
Uno dei motivi del successo di questa serie va ricercato nel fatto che lo spettatore è portato ad empatizzare, per un motivo o per un altro, con tutti i protagonisti (ma anche con qualcuno dei personaggi minori) e, di conseguenza, non
ci si annoia mai a seguirne le vicissitudini. Anche nel momento in cui una sottotrama viene momentaneamente lasciata da parte, non c’è in alcun modo un sentimento di rimpianto, la voglia di voler subito sapere come continua, perché si è immediatamente risucchiati da quella presentata successivamente, in un loop continuo in cui lo spettatore vuole sapere tutto e, contemporaneamente, aspettare. A questo ha contribuito anche la bravura di tutto il cast, su tutti quella del gruppo di amici del bambino scomparso (interpretati da Finn Wolfhard, Gaten Matarazzo, Caleb McLaughlin e da una straordinaria Millie Bobby Brown, che interpreta una bambina dai poteri paranormali che li aiuta nella ricerca) e di Winona Ryder, nel ruolo della madre.
Ovviamente l’elemento sovrannaturale contribuisce non poco a tenere alta la tensione, grazie, fra le altre cose, ad un sapiente gioco di musiche e luci, anche questi ereditati, guarda caso, dai grandi film di genere degli anni ‘80. Poltergeist, E.T., Alien, passando per I Goonies, La casa e Stand by me. Sono questi i genitori della serie, da cui, come ogni figlio che si rispetti, essa ne ha prima preso le caratteristiche migliori per poi distanziarsene poco a poco, prendendo una strada tutta sua.
Il finale, e non sarebbe potuto essere altrimenti, lascia aperti diversi spiragli per una possibile nuova stagione, di cui si sta già iniziando a parlare, ed abbandona lo spettatore in un sentimento di inquietudine ed attesa al tempo stesso. Tutti i fili sono stati tirati, le trame concluse. Ma nonostante questo c’è ancora qualcosa di indefinito che si muove nell’oscurità, qualcosa che per ora non ci è dato comprendere. La speranza è che la seconda stagione possa confermarsi sugli altissimi livelli di questa, che da più parti è stata definita come la migliore serie del 2016. Stay tuned.
Andrea Ardone