Vladimir Majakovskij, Anne Sexton, Vittorio Reta, Marina Cvetaeva, Heinrich Von Kleist, Alfonsina Storni. Questi nomi appartengono a personalità del passato che hanno principalmente due cose in comune: hanno tutti fatto della poesia il leitmotiv delle loro esistenze, a cui poi hanno volontariamente posto fine. I poeti-suicidi però, sono tornati in vita nello spettacolo Festival del Suicidio, scritto da Matteo Lolli (qui anche in veste di regista) e Alessandro Lori, per la compagnia Potevano essere rose, messo in scena sul palco del Fringe Festival, nella cornice di Villa Ada. Nella grottesca ed inquietante parodia di un festival canoro portata sul palcoscenico, i sei poeti cantano e recitano le loro composizioni, prima di compiere l’estremo atto di suicidarsi in diretta, il tutto sotto la direzione dei due presentatori, interpretati dallo stesso Lori e da Camilla Corsi, che alternativamente vestono i panni proprio dei partecipanti a questo concorso della morte (o meglio, delle morti).
Il testo è crudo, cattivo, punta a scioccare lo spettatore, fa dello humor nero il suo punto di massima potenza riuscendo però solamente in parte nello scopo che si era prefissato. Qui la morte viene esorcizzata nella maniera più classica, ovvero ostentandola, parodizzandola, mettendola in risalto fino all’eccesso fino a farne scomparire ogni sfumatura tenebrosa, ma anzi, facendola apparire come qualcosa di effimero, solo di passaggio. Morto un personaggio, via, si faccia avanti il prossimo.
La struttura del festival messo in scena ricalca quella delle miriadi di programmi televisivi in cui in teoria l’arte deve essere sotto i riflettori, mentre nei fatti i veri protagonisti sono la spettacolarizzazione, la competitività, il colpo di scena, e questi tratti dominanti più si mettono in risalto, maggiormente fanno in modo che la recitazione, il canto, la danza siano solo un tenue sottofondo. Allo stesso modo nel testo di Lolli e Lori la poesia perde tutta la sua potenza originaria.
Come dicevamo però, l’intento dello spettacolo non è stato raggiunto del tutto, dato che spesso la sensazione lasciata dal testo e dai diversi video che lo accompagnano, non è tanto di shock ma di vero e proprio disgusto, accentuato ancor di più dal linguaggio che spesso è gratuitamente fin troppo licenzioso. Sia chiaro, in una struttura narrativa di questo tenore la volgarità è ben accetta, ma deve essere inserita perfettamente nel contesto proposto e qui, purtroppo, più di una volta gli autori hanno mancato il bersaglio.
Nel pur ben costruito impianto di metafore e rimandi, accentuato dalla rottura della quarta parete, anche lo spettatore è tirato in causa come ingranaggio nel perverso gioco di demolizione dell’arte ma con delle modalità che più che far riflettere, ponendolo al centro di un’autoaccusa costruttiva, lo distraggono, portandolo lontano dal fulcro della questione principale, attorno alla quale ruota l’intera struttura scenica. Il video finale, che dovrebbe rappresentare il climax di questa riflessione su sé stessi e su determinati aspetti della società della spettacolarizzazione nella quale siamo immersi, contrariamente a quella che dovrebbe essere la sua funzione principale, smonta improvvisamente la sensibilità che durante la rappresentazione si era tentato faticosamente di costruire, gradino dopo gradino, fallendo nel suo intento. Si è disgustati dalla scena posta davanti ai nostri occhi e di conseguenza il sentimento di rifiuto rispetto a ciò che si sta guardando non porta a nessun tipo di riflessione su sé stessi.
A margine, sia Camilla Corsi che Alessandro Lori esprimono delle ottime capacità recitative, rendendo proprio l’intero spazio scenico e dimostrando di riuscire a reggere meravigliosamente la fatica fisica e mentale che un testo del genere richiede, un testo in cui i due attori devono in continuazione indossare e repentinamente togliersi una moltitudine di maschere.
Andrea Ardone