E’ morto Dario Fo, il Premio Nobel per la Letteratura. Bob Dylan ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura. La data sul calendario è quella del 13 ottobre 2016. Una data che non passerà inosservata nel mondo della cultura, dell’arte e dell’informazione né tantomeno sarà trascurata dalla gente comune. Il Giullare e il Menestrello. Potrebbe somigliare al titolo di un best-sellers, ma non lo è. Due artisti, due storie e un fattore comune: entrambi vincitori del Premio Nobel per la Letteratura.
A questo punto, dopo aver espletato la funzione legata all’onere della parte tecnica, passiamo pure, ad assolvere l’onore della sezione relegata al sentimento.
In questo successivo surrogato di frasi, dettate da flebili patemi, e raccolte a piene mani, niente paragoni, qualche concomitanza, una delle citazioni preferite, un brano ever green ed ecco qua, su due piedi, l’anello di congiunzione della catena che amplifica il richiamo al filosofo Voltaire con L’uomo senza idee è un imbecille, tanto caro all’eterno Giullare e giusto spunto per ciò che è il divenire.
Le prime ore della mattinata hanno il colore plumbeo del cielo. Fa freddo. L’aria è mesta. La notizia è grigia: arriva piano e lascia basiti. Forse è una bufala. No, è vera. Piove. E’ morto Dario Fo. Con lui se ne va un pezzo di storia italiana. Molto succintamente, tra pensieri e opinioni, si fa avanti l’identikit del novantenne italiano.
Il ritratto che viene fuori, vede un Dario Fo impegnato nei ruoli di regista, attore, autore, scenografo, drammaturgo, illustratore, pittore, scrittore e attivista, e insieme alla moglie, Franca Rame, innovatore del mondo artistico del nostro Paese. Il Giullare, con la sua verve politica e sociale, forse, avrebbe voluto rivoluzionare anche il nostro Paese. La sua indocile voce di sinistra lo aveva scortato, fino a spostare, negli ultimi anni, il vento della sua bandiera, sotto la luce delle stelle. Il resto, e non è poco, lasceremo che siano altre voci più autorevoli a dirlo.
Di converso, è solo in un becero anagramma che, di getto, si riversa l’accezione delle espressioni, risultanti dall’emozioni fruite dal pubblico in ascolto, al momento dell’annuncio della sua morte pronunciato dallo speaker alla radio.
Di primo acchito, accade che lo sconcerto accompagna le azioni. Poi, mentre le parole del cronista indugiano nell’etere, come in un confuso rewind, compare, appesa nel nulla, la faccia volutamente d’ebete, in una performance di scena al gramelot, del Maestro lombardo, sostituita dal viso aperto e vissuto, certamente non inibito, della quotidianità.
Dario Fo, il portatore sano e a spada tratta di satira e ironia, con quel certo non so che di Mistero Buffo cucito addosso, quasi come una camicia su misura. La figura, che si staglia dai ricordi, è quella rara e riconosciuta di individuo che determina la realtà. Dario Fo, il Giullare e il Genio: la traduzione automatica del suo Essere uomo libero – sempre rispettato, non di rado invidiato e temuto – che gli comporta il Premio Nobel per la Letteratura nel 1997.
Nel prosieguo delle ore di giovedì, sarà tutto appiattito in una estenuante commemorazione: cenni biografici, opere, speciali, interviste, forum, messaggi di cordoglio.
Verso metà giornata, la pausa. Il dispiacere lascia posto ad una tiepida esultanza. Non c’è il sole, ma non piove più. Inatteso, su monitor e display, si insinua di soppiatto, il video-comunicato, del Comitato dell’Accademia Svedese, per la nomina del vincitore del Premio Nobel per la Letteratura di quest’anno, conferito al cantautore americano Bob Dylan. Ed il boato di Stoccolma diventa un boato globale.
La notizia, non solo per gli spettatori, è un piacevole fulmine a ciel sereno questa volta. Una svolta nella giornata che ingenuamente stupisce. Per i presenti, il fatto occorso non appare uno spartiacque nella cronaca del giorno, anzi.
La novità è un meraviglioso, improvviso rovesciamento della situazione, che accresce interesse e audience per entrambi gli eventi, di natura opposta e eccezionale. Quasi come in un refrain, riecheggiano i due titoli E’ morto Dario Fo, il Premio Nobel per la Letteratura. Bob Dylan ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura.
L’assegnazione del premio al cantautore statunitense, nel giorno della morte del drammaturgo italiano, è una semplice coincidenza? Forse. Rappresenta un segno dei tempi? Forse.
Solletica il poter azzardare una presunta chiave di lettura, incanalando forze e pensieri, e magari osando nello sfruttare il termine sincretismo: un sincretismo di cultura, creatività e arte che favorisce il cambiamento degli scenari conosciuti e rimodella nuove tendenze, nuove regole e aspirazioni. Del resto, sposando l’affermazione di George Bernard Shaw, drammaturgo irlandese, Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla: l’unica difficoltà consiste nel trovare il tono. E loro, il Giullare e il Menestrello, lo hanno trovato il tono. Loro hanno vinto grazie a quel tono.
E ritorniamo a Bob Dylan e al suo premio, senza soffermarci su carriera, titoli, riconoscimenti, concerti o privato del primo fra i 100 migliori cantautori dello scorso anno. Ovunque spopolano i consensi. Qua e là anche sporadici dissensi. Molti sono i commenti delle persone nate con i ben 60 anni di musica del Menetrello di rivolte giovanili dei tempi andati, quello che saliva sul palco in striminziti pantaloni e con addosso aria scompigliata e sottofondo folk, figura chiave del movement, il movimento di protesta americano. Non mancano i giovanissimi, a cui i genitori, hanno tramandato nel DNA le sue veementi ballate.
Per chiunque, e la circostanza diventa comune, non c’è una vera ragione che spinge a cercare i brani conosciuti e quelli meno noti del cantautore, ma solo l’attenzione sull’espressione poetica, un quid che canta e incanta: è il risultato della permutazione delle musiche, dei generi e, di una o più, parole in modo tale da creare una lirica altra o, eventualmente, quel sentire nuovo profuso dal trascorso, che risulta affine all’odierno contesto.
Una scelta audace quella del Comitato di Stoccolma? Probabilmente per qualcuno si, ma per molti è una scelta che sembra aprire quella famosa porta sul cambiamento, e pare di udirle quelle note dolci, stridenti, sincere e supplichevoli dell’armonica a bocca, che si fanno perno verso la speranza di un credibile mutamento (sono passati vent’anni dalla prima nomination di Bob Dylan nel 1996, alla quale sono seguite altre candidature mai andate a buon fine, fino a ieri!). E che dire – per tener fede all’ever green menzionato poco fa, all’inizio, nel secondo capoverso – del commerciale singolo Knockin’ On Heaven’s Door, interpretato da oltre 150 musicisti – tratto dall’album Pat Garret & Billy The Kid, del 1973, colonna sonora del film omonimo, e che vede Bob Dylan, anche nei panni di attore, nel ruolo minore di Alias, un membro della banda di Billy The Kid – con la frase I feel like I’m knockin’ on heaven’s door (mi sembra di bussare alle porte del cielo), il brano alla fine non è più, al di là del significato letterale del testo, simbolo di accettazione e sconfitta, ma diventa, oggi, formula di riscatto.
Il Menestrello, il militante fuori dal coro, dell’impeto e delle passioni, sarà ancora criticato e amato, sempre considerato Genio e Poeta del pop. Bob Dylan, è finalmente antesignano del riconoscimento della sua canzone e dei suoi testi alla stregua di poesia: il rock’n’roll è rappresentazione poetica del mondo reale. Bob Dylan, è il pioniere ribelle che ha contribuito ad elevare, a più alti gradini, la musica popolare americana.
Una nomina, quella di ieri del Premio Nobel per la Letteratura, che fa da apripista, dettata da quella Cultura che è connubio di Memoria – nel senso di Storia – e futuro. La cultura non si può ottenere se non si conosce la propria storia, consiglia Dario Fo. Cultura come metabolismo basale della vita di ogni essere umano. Un mondo senza défaillance o carenze riservato ai semplici, in cui non ci sono risposte semplici, negato ai falsi invecchiamenti, ma intriso d’espedienti di ragionevolezza, preservato al credo statico, ma rafforzato da pura umiltà dinamica. L’habitat idoneo per un sapere vivo che ingravida e partorisce idee. Non un miraggio, ma un miracolo della realtà: scacciare l’ignoranza per aprire gli occhi. Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere, perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere, suggerisce Dario Fo.
Nutrirsi di cultura per Essere ed Esistere. Pensare ed Essere convolano nello stesso concetto, l’uno non esiste senza l’altro, tutto è concepito affinché sia perennemente mobile e disponibile ad ogni probabile mutazione. Ed è l’humus che arde, incita e infiamma Giullare e Menestrello.
E noi, che dobbiamo fare (oppure è meglio dire subito, noi che vogliamo fare?), continuiamo a restare fermi a guardare? Per noi, poveri mortali, oltre che ricordare ieri come la giornata del Giullare e del Menestrello, serve incamerare la lezione di vita, e senza procastinare, provare a seguire l’esempio di queste icone del ‘900,ammettendo che, come diceva Aristotele, Ciò che dobbiamo imparare a fare lo impariamo facendolo.
Maria Anna Chimenti