La parte più difficile dell’adattare al teatro un testo pensato per altri medium, è riuscire a trasmettere al pubblico le stesse sensazioni, lo stesso pathos, la stessa aura dell’opera originale, adattandosi ai mezzi propri di questa forma d’arte. Se parliamo di un’opera come Il nome della rosa, poi, questa difficoltà sarà ancora più esponenziale, visto che sia il libro di Umberto Eco che il film con protagonista Sean Connery hanno riscosso un eccezionale successo in tutto il mondo, diventando due cult dei propri contesti artistici di riferimento. Proprio partendo dall’opera più famosa dello scrittore piemontese scomparso da poco, il regista Pablo Maximo Taddei trasla le tematiche religiose, filosofiche, artistiche e di genere dalle pagine letterarie alla cornice teatrale, con un ottimo risultato, andato in scena al Teatro degli Audaci, in una prima nazionale che ha riscosso un grandissimo successo di pubblico.
Il regista riproduce grazie ad un sapiente gioco di luci e fumo ed una scenografia minimalista ma funzionale al massimo, le atmosfere gotiche proprie del romanzo di Umberto Eco, utilizzando con superbia l’espediente caratterizzante del teatro greco, ovvero l’uso della maschera. Flavio De Paola, direttore artistico del teatro, veste i panni di Guglielmo da Baskerville, il dotto frate francescano incaricato di risolvere il mistero degli omicidi che stanno mettendo in subbuglio l’abbazia dove si svolgono gli eventi. Il suo è un doppio ruolo, dato che funge anche da voce narrante, lì dove i mezzi teatrali devono fare i conti con le proprie limitazioni naturali, mettendo di volta in volta lo spettatore di fronte a fatti compiuti “dietro le scene”. Sul palcoscenico è coadiuvato da Danilo Zuliani ed Emiliano Ottaviani, i quali si alternano sullo spazio scenico interpretando tutti gli altri ospiti dell’abbazia, dando prova di ottime capacità, grazie all’inaspettato quanto riuscito uso di maschere grottesche, perfettamente in linea con le atmosfere dell’opera, ma sopratutto mettendo in mostra uno strabiliante lavoro condotto sulle tonalità vocali, diverse per ogni personaggio portato in scena. Presente ed assente al tempo stesso la figura del novizio Adso, il giovane aiutante di Guglielmo, il quale per tutta la durata della piéce null’altro è che una figura d’ombra, riconoscibile solamente dalla voce.
Menzione a parte merita la scenografia, che si discosta da una rappresentazione realistica dei luoghi portati in scena rendendoli, allo stesso tempo, verosimili, ed incastrandoli alla perfezione nel contesto teatrale. Il sistema di soppalchi trasportabili su cui gli attori si muovono, portano sul palcoscenico la caratteristica struttura a più livelli dell’abbazia che tutti abbiamo potuto vedere anche nel film del 1986.
Mentre si assiste allo spettacolo si è completamente immersi nell’atmosfera inquisitoria propria degli anni della narrazione, si è pervasi da un fortissimo senso di inquietudine. Lo smarrimento ed il terrore provato dai personaggi che popolano questo testo, derivato dalla paura della morte che si mescola alle guerre intestine dei vari ordini religiosi, al mistero, al timore di vedere scoperti i propri segreti, all’essere perseguitati, si riflette sullo spettatore, incatenato alla propria poltrona proprio come quelle maschere che sul palcoscenico sono incatenate durante l’interrogatorio.
Ciò che deriva da questo audace sforzo artistico è uno spettacolo che dà esattamente ciò per cui è stata creata, ovvero una nuova e convincente forma di rappresentazione di un’opera che è destinata a rimanere per sempre scolpita nella storia dell’arte, italiana e mondiale.
Andrea Ardone