Al “Quirino”, sino al 19 marzo, Angelo Tumminelli per la Star Dust Show Production mette in scena “Quei due” ( titolo originale “Stair case”, “Il sottoscala”): testo fondamentale della drammaturgia inglese contemporanea, opera di Charles Dyer, autore -attore nato nel 1923, che (un po’ come Pirandello, diremmo) scrive soprattutto di personaggi malati di solitudine, del loro coraggio, della loro umanità, e della loro capacità di sorridere nonostante tutto. “Quei due”, terzo anello d’una singolare “Trilogia della solitudine”, è la storia di Harry (Tullio Solenghi) e Charlie (Massimo Dapporto): una coppia di barbieri omosessuali “intrappolati” da anni in una barberia londinese situata in un sottoscala. Pur legati disperatamente l’uno all’altro da decenni, si dilaniano a vicenda con incessanti litigi: ma proprio quell’amore omosessuale ormai lacero e stantio, permette alla coppia non solo d’ evitare la solitudine, ma anche di riscoprire – tra un litigio e l’ altro – quella che è, in realtà, la profondità del loro sentimento, del legame che li unisce.
Due poveracci, due “sequestrati di Altona” ( per dirla con Sartre) nella “swinging London” di metà anni ’60: che, dietro al ricordo di storiche lotte per i diritti civili e a un clima di apparente trasgressione di massa, nasconde, in realtà, tutto il peso dei vecchi, repressivi, tabu’ vittoriani. Siamo nel 1966, le storiche lotte statunitensi anni ’70 del movimento gay ( da Stonewall ad Harvey Milk) devono ancora venire, e comunque saranno al di là dell’ Oceano; e nel Regno Unito vige ancora il vetusto “Buggery Act”, antiomosessualità, del 1533 ( ben piu’ antico del famigerato “articolo 175” tedesco), che sarà abrogato solo nel 1967. Ne han saputo qualcosa Oscar Wilde, condannato, nel 1895, a 2 anni di lavori forzati per la sua relazione con Lod Alfred Douglas, ed Alan Turing, il matematico tra i padri del computer: che pure era stato determinante nella scoperta , durante la guerra, del codice segrreto di comunicazione nazista, e tuttavia, nel ’52, era stato condannato addirittura alla castrazione chimica, suicidandosi infine due anni dopo.
Harry è, in sostanza, una civetta effeminata che, per compensare un forte istinto materno inappagato, ricopre il compagno di soffocanti attenzioni, accolte senza gratitudine. Charlie invece, l’ uomo della coppia, è un ex-attore consumato da un forte narcisismo, diremmo un Calvero chapliniano piu’ disincantato e depresso: schiacciato dal peso della vergogna per la sua omosessualità e dall’ombra d’ un processo che dovrà affrontare per atti osceni in luogo pubblico.
Quello di Harry e Charlie è un amore consumato clandestinamente in un oscuro “sottosuolo”, dai toni fra Chaplin e Dostojewskij: in per
fetta unità aristotelica di tempo, luogo e azione, i due passano la notte tra la domenica e il lunedì aspettando ansiosamente la convocazione di Charlie al processo, preoccupandosi per le proprie anziane madri e pensando a come Charlie ( che ricorda, a tratti, il Tognazzi del “Vizietto”) potrà meglio presentarsi, il giorno dopo, ad accogliere, all’aereoporto, la figlia che non ha mai conosciuto. Ma proprio questa tensione permette ai due- come accennavamo . di ritrovare sè stessi e rifondere realmente il loro legame.
Un testo divertente quanto in realtà profondo, con scene di Massimo Bellando Randone, costumi di Moris Verdiani e musiche di Brentmont; la regìa, senza sbavature, è di Roberto Valerio.
Fabrizio Federici