Settantasei anni fa, il 13 gennaio 1941, una piccola folla di parenti e amici – tra cui, unico rappresentante della madrepatria Irlanda, il console di Dublino a Zurigo – accompagnava, appunto al cimitero di Zurigo, le ceneri di James Joyce. L’indimenticabile maesto dei “Dublineers” e dell’ “Ulysses”, lo scrittore anticonformista, ironico fustigatore di dogmatismo e conformismo religioso, ma dallo spirito profondamente cristiano, che , tagliati sostanzialmente i ponti, da anni, con un’ Irlanda dimostratasi, per lui, piu’ matrigna che madre, aveva scelto di vivere le stagioni migliori della sua vita soprattutto tra l’Italia (Trieste, Roma) e la Francia (Parigi). Lasciando poi quest’ultima – un po’ come il Rick di “Casablanca” – poco dopo l’invasione nazista, e finendo di vivere, con la famiglia, a Zurigo (tormentato, negli ultimi anni, da depressione, malattie oculari e, in ultimo, ulcera duodenale). Proprio a James Joyce, informiamo, è dedicato il volume “Lettere e saggi”, a cura di Enrico Terrinoni (Il Saggiatore, 2016, pp. 1101, €. 75): cospicua antologia di lettere ( specie col fratello minore Stanislaus, piu’ accorto e dotato di senso pratico, sostanzialmente un suo “alter ego”), saggi e articoli per periodici vari da cui traspaiono pienamente sia l’ uomo Joyce che il Joyce non solo scrittore, ma anche giornalista e politico ( con le simpatie,ad esempio , piu’ volte mostate per Arthur Griffith, il fondatore, nel 1905, dello “Skinn Fein”, poi primo presidente, dal gennaio all’agosto 1922, della nenonata Repubblica irlandese).
Al “Teatro del Vascello” di Roma, le indicazioni e le superimplicazioni semantiche e propriamente musicali della lingua joyciana son state portate ultimamente a lievitare sino a un diabolico (ricordiamo, con Genet, che “l’ esercizio teatrale è diabolico”) parossismo fonico: eguagliatore, in potenza evocativa, di quella scrittura poetica e incredibilmente agile, capace davvero di volare da un tema e un’atmosfera ad altri diversissimi, che è tipica dell’ autore de “L’Ulisse” ( e che giungerà allo zenith nel successivo “Finnegan’s Wake”). Ci riferiamo allo spettacolo “Bersaglio su Molly Bloom”, andato ultimamente in scena con grande successo: interpretato da Maria Luisa Abate, Paolo Oricco, Stefano Re, Valentina Battistone, Virginia Mossi, Daniel Nevoso, Francesca Rolli, Margaux Cerutti, Marco Isidori. Su un palco con una scenografia ultraessenziale, imprigionati in una rete di nicchie e scale ( simbolo, evidentemente, delle mille quotidiane peripezie della vita), questi “Magnifici nove” si son cimentati con l’ultimo capitolo dell’ “Ulisse”, il celeberrimo monologo di Molly Bloom ( in cui, com’è noto, una Molly/Penelope – diversamente dall’eroina omerica, non fedele al marito – attende pigramente, stesa nel letto, l’arrivo dell’ amante (cui seguirà, in tarda serata, il Leopold/Ulisse, reduce da una giornata trascorsa, proprio come l’Ulisse omerico, tra mille contrattempi e insidie). Stretta tra il piacere d’incontrare il focoso amante e un certo rimorso nei confronti del marito, che ricorda negli anni piu’ belli della giovinezza, e soprattutto nel momento del fatale “Sì”. Il continuo alternarsi delle voci rende efficacemente il turbinio di pensieri e ricordi nella testa di Molly, i suoi pindarici voli da un argomento all’altro; traducendo pienamente in teatro quel caratteristico stile di Joyce capace davvero di riprodurre il turbinio che, ogni giorno, alberga nella mente dell’uomo.
Le tecniche sono di Sabina Abate, scena e costumi di Daniela Dal Cin; regìa, Marco Isidori, produzione di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, col sostegno del Sistema Teatro Torino.
Fabrizio Federici