“The Truman Show”. Questo, riprendendo il titolo del celebre film del 1998 di Peter Weir, sembra il modo piu’ giusto per definire la pièce – andata in scena ultimamente al Teatro “Del Vascello”, prodotta dal Teatro della Toscana, per la regìa di Emanuele Gamba – dedicata alla vita di Truman Capote (1924-1984), il geniale scrittore e giornalista che impersonò, in un certo qualmodo, l’ America degli anni ’60-”80, stretta tra sogni kennediani e inferno del Vietnam, lotte per i diritti civili e imminenti stagioni di Nixon e Reagan. “Questa cosa chiamata amore”: questo il titolo della pièce, opera di Massimo Sgorbani, e interpretata da un vulcanico Gianluca Ferrato. Che si cala perfettamente nei panni dell’ intellettuale nevrotico, con un’infanzia difficile, che sembrava uscita da un copione di Tennessee Williams, poi entrato nel firmamento dello “star system” grazie soprattutto al romanzo-reportage “A sangue freddo” (1966), dedicato all’incredibile sterminio, da parte di due balordi, d’un’intera famiglia di agricoltori del Kansas, 6 anni prima.
Come Oscar Wilde, amato perchè dal talento unico, ma odiato per la sua diversità di omosessuale dichiarato, Capote – con uno stile basato su ardite sperimentazioni, che ricordavano quasi gli arditismi linguistici di Joyce – seppe descrivere impietosamente tutte le facce del “pianeta America”: il lusso e i sogni del potere e la miseria degli slums, la retorica e le “kermesse” holliwoodiane e le miserie della profonda provincia. Ferrato ricrea in pieno la disperata vitalità di quello che è stato, in un certo senso, il Pasolini americano, critico dello star system eppure pienamente inseritovisi, nemico del circo massmediatico ma irresistibilmente attratto da esso. Immaginando- come filo conduttore – un ipotetico dialogo con un’altra celebre “spostata”, Marilyn Monroe ( sua grande amica sino a quella tragica morte dell’agosto 1962), Ferrato/Capote trasporta il pubblico dietro le quinte del gigante americano, tra megafeste e intrighi di potere, retroscena delle vite dei Kennedy e di Jackie e lunghi dialoghi, nel parlatorio d’un carcere, coi due imputati della strage del 1960 in Kansas (che in lui davvero avevano trovato l’unico amico). Come lo scomparso Philip Seymour Hoffmann nel celebre film del 2005 “A sangue freddo”, Ferrato ricostruisce i tormentati sentieri psicologici di quest’intellettuale gay, tossicodipendente e alcoolizzato, destinato a morire, un mese prima di compiere sessant’anni, a fine agosto 1984. Le scene, essenziali ma sempre azzeccate, sono di Massimo Troncanetti; i costumi, di Elena Bianchini.
Fabrizio Federici